Dalida. Andarsene sognando
di Tony di Corcia
Edizioni Clichy, febbraio 2021
pp. 128
€ 7,90 (cartaceo)
Prima di cimentarmi con la lettura di questa biografia ho voluto vedere in un primo momento il film “Dalida”, uscito nel 2017, e subito dopo anche l’omonima miniserie del 2006. Sono arrivata a conoscere molto della vita di questa grande artista, di cui non sapevo quasi nulla. Eppure, qualcosa sembra sfuggermi ancora.
Non è facile cogliere l’essenza di Iolanda Gigliotti, in arte Dalida, figura poliedrica che ha spaziato dal cinema alla musica, affermandosi come un’artista straordinaria nel senso letterale del termine, fuori dal comune. Si è fatta strada con la sua tenacia, determinazione e coraggio. Un coraggio che la caratterizzò sin da quando era solo una bambina. Nata in un sobborgo del Cairo, in Egitto, da genitori calabresi, la sua vita fu subito segnata dall’oscurità, che non smise mai di vivere al suo fianco. Fu costretta a subire diverse operazioni agli occhi per curare la sua miopia, e dovette tenere una benda per quaranta giorni, evento da cui originò la sua paura del buio. In quel difficile periodo, solo la musica delicata e amorevole di suo padre, violinista d’orchestra, riusciva a placare la sua paura. La musica era il suo rifugio sicuro, e così sarebbe stato per tutti gli anni a venire, fino al giorno in cui decise di porre fine alla sua vita, in un ultimo atto di coraggio.
Sembra impossibile che una sola esistenza possa essere segnata da così tanto dolore, una ferita che si aprì nel 1940, quando i soldati egiziani rinchiusero suo padre in un campo di prigionia, accusato, come successe a molti italiani, di essere dalla parte dei nazisti. Una ferita che non si cicatrizzò mai, anzi, continuò ad allargarsi, a riempire il suo cuore di sofferenze: ma Dalida non permise mai al dolore di ostacolare la sua vita, anzi ne fece la sua arma più potente, lo rese strumento per affermare la sua forza e conquistare i più importanti palchi di Parigi, città in cui visse gran parte della sua vita.
Ciò che più mi ha colpito della sua vita è stata la costante ricerca dell’Amore vero, come afferma in un’intervista: “Per me la cosa più importante è l’amore. Io cerco il vero amore. Se mi guardo indietro, nel mio passato, posso dire che ho avuto molti uomini nella mia vita ma che la mia ricerca è sempre stata l’amore, quello vero.” (p. 91). Una ricerca davvero estenuante, che la ossessionava, ma che non riusciva mai a renderla completamente felice: tutti volevano Dalida, ma la mattina si svegliavano al fianco di Iolanda. “Io sono una donna sola, completamente sola. Tutti i miei amori sono stati dei fallimenti, non ho mai conosciuto il vero amore.” (p. 103)
I tre uomini più importanti della sua vita, suo marito Lucien Morisse, il grande Luigi Tenco e Richard Chanfray, con cui ebbe la relazione più duratura della sua vita, sono tutti accomunati dallo stesso atto tragico, il suicidio. Tre suicidi, in cui il denominatore comune era Dalida, che si sentì responsabile della loro morte per tutta la vita. Un dolore enorme da sopportare e con cui convivere. Viene quasi da pensare che la morte fosse l’unica fedele compagna di vita di Dalida, sempre presente come un’ombra alle sue spalle, tanto che iniziavano a girare voci secondo cui portasse sfortuna e attirasse eventi tragici.
Questa biografia a cura di Tony di Corcia è un piccolo gioiello: inizia con una breve cronologia degli eventi più importanti dell’artista, per poi passare a un commovente racconto in prima persona, come se fosse Dalida stessa a raccontarci la sua vita, con tutto il dolore e l’amore che la caratterizzò. Infine, una raccolta di frasi tratte dalle sue canzoni, e di pezzi di interviste che rilasciò durante gli anni della sua carriera. Credo che utilizzare le frasi delle canzoni interpretate da Dalida per raccontare la sua vita funzioni in maniera perfetta, perché la sua musica era lo specchio della sua vera essenza. Lei era la sua musica, e il palco il luogo in cui riusciva a esprimere il suo vero Io, forse l’unico luogo in cui Iolanda coincideva con la cantante Dalida, non si trattava più, in quel momento, di due donne distinte. È curioso che le canzoni che interpretò contengano delle frasi così perfette per descrivere i momenti più importanti della sua vita, perché non era lei a scriverle. Sembra impossibile, ma Dalida non scriveva i pezzi che cantava, ma li sceglieva così accuratamente da far credere che fosse stata lei a scriverli. Doveva sentirli suoi, calzavano a pennello, come il vestito di raso bianco che indossava mentre cantava Je suis malade, poco dopo la morte del suo grande amore Luigi Tenco.
Una donna complessa, piena di contraddizioni, alla ricerca costante del vero amore, bisognosa di essere madre per sentirsi pienamente affermata come donna, ostacolata dalle diverse morti che prosciugarono le sue speranze fino a quando non ne poté più. Dalida ci lascia in una domenica di maggio, ancora una volta lei sola padrona del suo destino. Si pettina accuratamente, indossa una camicia da notte di raso, ripone sul comodino i libri più importanti della sua vita, ingurgita 120 pasticche di barbiturici e, per la prima volta nella sua vita, prima di scivolare in un sonno eterno spegne la luce: la paura è passata. Mourir sur scène, brano tratto dall’album “Les p’tits mots” del 1983, viene preso come il suo ultimo testamento, perché nelle sue parole ritroviamo la predizione del suo tragico addio: “Io, che ho scelto tutto nella mia vita, voglio scegliere anche la mia morte”, e ancora “Morire senza il minimo dolore, di una morte ben organizzata, io voglio morire in scena, è lì che sono nata.” (p. 108)
Una donna con la D maiuscola, che affermò attraverso le sue canzoni la potenza delle emozioni che dominavano il suo cuore, che nuotò con coraggio in un oceano di uomini, squali in costante attesa dell’affievolirsi della sua luce interiore. Ma lei non diede a nessuno questa soddisfazione, lo doveva a se stessa. Tuttavia, arrivò il giorno in cui la luce che la circondava come un’aura si spense per sempre, perché, come scrisse nel suo biglietto di addio: “La vita mi è insopportabile. Perdonatemi”. Gli amori spezzati da quelle morti violente, di cui lei si sentiva responsabile, la delusione di non essere mai diventata madre, e la scomparsa dei suoi genitori fecero in modo che quella ferita apertasi da piccola si lacerasse completamente, non lasciando più una possibilità di guarigione. Ma Iolanda e Dalida, due facce della stessa medaglia, le sue emozioni, e la sua grande dimostrazione di tenacia e coraggio vivono nella sua musica, e continuano ad essere per noi fonti di ispirazione e conforto.
Ringrazio l’autore per avermi fatto conoscere quest’artista così complessa, e forse solo ora capisco perché sembra sempre sfuggermi qualcosa della donna che è stata Dalida: è il suo modo di ricordarci di non smettere mai di cercare, di credere fermamente in ciò che vogliamo diventare, e di non permettere a nessuno di decidere per noi, perché “Ogni essere umano possiede il libro della sua vita. Arriva un giorno in cui bisogna aprirlo e guardarci dentro. Il viaggio più meraviglioso non è quello che l’uomo ha fatto per andare sulla Luna, ma il viaggio nella propria interiorità.” (p. 82)
Lidia Tecchiati
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