Due vite
di Emanuele Trevi
Neri Pozza, maggio 2020
pp. 128
€ 12 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
«Scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre. Far divampare un fuoco psicologico da qualche fraschetta umida raccattata qua e là. (…) Che differenza c’è tra la Pia Pera registrata all’anagrafe di Lucca il 12 marzo del 1956 e la Tat’jana di Puškin? Dal punto di vista del linguaggio, sono solo due pupazzetti fatti di scampoli lisi e fil di ferro, un ciuffetto di crine per i capelli, due bottoni spaiati per gli occhi.» (p. 83)
Uno scrittore che scrive di scrittori. I presupposti per un'opera che sfuma il confine tra vita e letteratura c'erano tutti. Eppure Emanuele Trevi prende il suo compito con così tanta serietà, che quello che ottiene è l'opposto di ciò che ci si potrebbe aspettare: non persone vere che sembrano personaggi letterari, ma, al contrario, personaggi dichiaratamente letterari, simulacri di parole creati dallo scrittore, che però calzano a pennello i nomi e la vita ormai conclusa dei loro omonimi di sangue e ossa. Pia e Rocco, i personaggi letterari nati dalle ceneri di Pia Pera e Rocco Carbone, trasudano realtà, schizzano fuori dalla pagina, come si suol dire. Il risultato sono due personaggi del tipo che ogni lettore cerca disperatamente nelle proprie letture, di quelli narrati con semplicità e precisione tale da prenderti il cuore con un singolo gesto elegante, in modo non dissimile da come gli omonimi reali di questi due personaggi avevano conquistato l’affetto di Trevi mentre erano in vita, prima di diventare personaggi.
Nel racconto delle vite di Rocco Carbone e Pia Pera, entrambe interrotte troppo presto, Trevi sa di dover sovrapporre il piano dell’esperienza vissuta e quello letterario, perché è sul confine di questi due mondi che i tre amici hanno trascorso la loro esistenza condivisa, sul filo come degli equilibristi. Che l’esistenza letteraria sia vera esistenza, capace di travalicare gli sciocchi limiti della materia creando un mondo fatto di linguaggio, ma non per questo meno reale, Trevi lo sa bene: «mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, dall’altro capo del filo c’è solo un’assenza.» (p. 84) Il compito realmente arduo, quello che Trevi si pone nel suo mettersi a scrivere per sentire quella “presenza ingombrante”, è quello di fondere i due piani sovrapposti, soffiando vita vera nelle pagine scritte.
È questo, infatti, il vero senso del titolo: nel rivolgersi apparentemente alle due esistenze terrene di Pia e Rocco, Trevi sembrerebbe semplicemente volerli riportare a uno stato di vita dopo la morte, quella vita che la scrittura consente. Eppure, non è così. Il senso del titolo ci viene spiegato da Trevi stesso: «perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene» (p. 83). Trevi non sta lottando contro la mortalità, non sta cercando di riportare in vita chi la vita l’ha abbandonata; sta accompagnando a braccetto i suoi due amici nella seconda delle loro due vite, quella che proseguirà non solo in chi li ha conosciuti e amati, ma, da adesso in poi, anche nei lettori di questo libro.
È in questo senso che il romanzo procede sempre ritornando sul tema della transitorietà e della caducità della nostra “prima vita”, quasi a volerci costantemente ricordare della necessità di andare oltre la materia. Ai piccoli quadri della vita dei protagonisti si alternano riflessioni sulla transitorietà del tempo insita, ad esempio, nella fotografia, che, lungi dall’”immortalare” un momento, non fa altro che fornirci la testimonianza della mortalità di ogni cosa. Lo stesso vale per i nostri ricordi: possiamo fidarci delle nostre fugacissime impressioni, che sbiadiscono ogni giorno che passa? Tanto vale, dunque, smettere di aggrapparci ai simulacri della prima vita e, nel voler sentire di nuovo vicini chi non è più con noi, spostarci alla seconda. È in questa seconda vita che Rocco Carbone e Pia Pera rivivono come personaggi letterari, guadagnandosi l’affetto di lettori sconosciuti non tramite fotografie e ricordi spacciati per verità inconfutabili, ma tramite il ricordo dei loro libri, del loro modo di vedere la realtà, l’orto di Pia, le idiosincrasie di Rocco. Trevi sa di non poter farli rivivere. Ma con questo libro, li colloca per sempre nell'immortalità vera della seconda vita, quella letteraria, dello spirito, a cui ogni scrittore tende nel momento in cui si dedica alla decantazione della realtà tramite le parole.
Marta Olivi
Nel racconto delle vite di Rocco Carbone e Pia Pera, entrambe interrotte troppo presto, Trevi sa di dover sovrapporre il piano dell’esperienza vissuta e quello letterario, perché è sul confine di questi due mondi che i tre amici hanno trascorso la loro esistenza condivisa, sul filo come degli equilibristi. Che l’esistenza letteraria sia vera esistenza, capace di travalicare gli sciocchi limiti della materia creando un mondo fatto di linguaggio, ma non per questo meno reale, Trevi lo sa bene: «mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, dall’altro capo del filo c’è solo un’assenza.» (p. 84) Il compito realmente arduo, quello che Trevi si pone nel suo mettersi a scrivere per sentire quella “presenza ingombrante”, è quello di fondere i due piani sovrapposti, soffiando vita vera nelle pagine scritte.
È questo, infatti, il vero senso del titolo: nel rivolgersi apparentemente alle due esistenze terrene di Pia e Rocco, Trevi sembrerebbe semplicemente volerli riportare a uno stato di vita dopo la morte, quella vita che la scrittura consente. Eppure, non è così. Il senso del titolo ci viene spiegato da Trevi stesso: «perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene» (p. 83). Trevi non sta lottando contro la mortalità, non sta cercando di riportare in vita chi la vita l’ha abbandonata; sta accompagnando a braccetto i suoi due amici nella seconda delle loro due vite, quella che proseguirà non solo in chi li ha conosciuti e amati, ma, da adesso in poi, anche nei lettori di questo libro.
È in questo senso che il romanzo procede sempre ritornando sul tema della transitorietà e della caducità della nostra “prima vita”, quasi a volerci costantemente ricordare della necessità di andare oltre la materia. Ai piccoli quadri della vita dei protagonisti si alternano riflessioni sulla transitorietà del tempo insita, ad esempio, nella fotografia, che, lungi dall’”immortalare” un momento, non fa altro che fornirci la testimonianza della mortalità di ogni cosa. Lo stesso vale per i nostri ricordi: possiamo fidarci delle nostre fugacissime impressioni, che sbiadiscono ogni giorno che passa? Tanto vale, dunque, smettere di aggrapparci ai simulacri della prima vita e, nel voler sentire di nuovo vicini chi non è più con noi, spostarci alla seconda. È in questa seconda vita che Rocco Carbone e Pia Pera rivivono come personaggi letterari, guadagnandosi l’affetto di lettori sconosciuti non tramite fotografie e ricordi spacciati per verità inconfutabili, ma tramite il ricordo dei loro libri, del loro modo di vedere la realtà, l’orto di Pia, le idiosincrasie di Rocco. Trevi sa di non poter farli rivivere. Ma con questo libro, li colloca per sempre nell'immortalità vera della seconda vita, quella letteraria, dello spirito, a cui ogni scrittore tende nel momento in cui si dedica alla decantazione della realtà tramite le parole.
Marta Olivi
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