Italiana
di Giuseppe Catozzella
di Giuseppe Catozzella
Mondadori, 2021
pp. 324
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9.99 (ebook)
“Lo aspettavamo da sempre, il nostro sangue era fatto di quell’attesa, la nostra eroica follia e la ferocia disperata” (p. 174)
È un deciso decentramento, quello di Giuseppe Catozzella, che dai temi di
attualità legati alla storia contemporanea, si sposta con questo nuovo romanzo
decisamente più indietro nel tempo, nel pieno dei fermenti risorgimentali, alle
soglie dell’Unità d’Italia. Ancora una volta, però, come nel suo toccante Non dirmi che hai paura, al centro della
narrazione c’è una ragazza che si ribella alle convenzioni e al contesto
sociale in cui è inserita. Ci troviamo nel sud Italia borbonico, ancora
paralizzato nella forma di uno stato quasi feudale, dove i pochi notabili, i
“cappelli”, vivono a spese di braccianti sfruttati e sottopagati, abusando
della propria situazione di vantaggio e continuando a inghiottire i diritti
altrui. La piccola Maria si rende presto conto che “la libertà a casa nostra non esisteva, era una cosa da signori, o da
pazzi” (p. 23). Ha osservato sua madre, figlia di quelle montagne dove i
padroni ancora non arrivano, appassire entro i ritmi di un lavoro logorante,
consumarsi gli occhi filando a cottimo tessuti finissimi per l’alta nobiltà, e
sa che non vuole seguirne le orme. Eppure non
è facile essere donne, né tantomeno coltivare sogni più grandi della realtà
angusta e povera in cui si è costretti a crescere. Non è facile fare
proprie le speranze alimentate da quei pochi nobili liberali che vogliono il
cambiamento, perseguitati e spesso giustiziati dalle forze di sorveglianza
borboniche, o da quegli uomini stanchi che si rifugiano sulle montagne, come lo
zio Terremoto.
“Ziu’ tiene a testa china i suogni” diceva [la zia], quando stavamo davanti al camino, o fuori, d’estate, tra il pollaio e l’orto, la luna era alta e i grilli canterini frinivano. “Suogni di un avvenire giusto, suogni grandi” diceva, e ogni volta che diceva “grandi” io cercavo di capire se li avevo anch’io oppure no quei sogni, e che cosa fossero, come potessero essere così forti da cambiare la vita di alcune persone, perché a casa nostra non ne aveva nessuno, e comunque a quella parola – “sogni” – non sapevo che significato dare. (p. 49)
Non è facile soprattutto da quando è tornata Teresa, sorella anaffettiva,
rancorosa, che rimpiange una giovinezza trascorsa tra gli agi lontana dalla
famiglia d’origine e adesso si vendica della povertà in cui è ricaduta con
mille piccole meschinità. Non è facile quando per aiutare un padre indebitato
si è costretti a fare ciò che si detesta, a rinunciare a ogni altra velleità,
compreso l’amore per i libri coltivato nel segreto (“Forse erano quelli i sogni di cui parlava zio Terremoto”, p. 57).
Eppure, anche se la madre le ripete che sarebbe stato meglio nascere maschi,
Maria non rinnega la propria femminilità: lei
vuole essere libera in quanto donna, in quanto donna riscattare la propria
sorte. E questa è la posizione che manterrà fino alla fine, quando si
inerpicherà a sua volta tra i monti e reciderà i suoi legami con la vita
precedente:
una cosa dev’essere chiara: se ho usato un coltello per tagliarmi i capelli e mi sono vestita da uomo non è stato per essere come uno di loro. Se l’ho fatto è stato perché, senza, non mi sarei mai liberata. Senza, sarei rimasta Maria. (p. 14)
Nel romanzo di Catozzella, la storia
individuale di Maria Oliverio incontra quella nazionale negli anni che
accompagnano la spedizione garibaldina nel Meridione (e nella, a tutti gli
effetti, guerra civile che seguirà il momento dell’Unità). Si nota, ancora a
processo in atto, una divergenza tra lo sguardo più amaro, forse consapevole,
di Maria, e gli slanci rivoluzionari del marito Pietro, che saranno pertanto
più ferocemente delusi:
Garibaldi, dopo Palermo, in pochi giorni ha preso Milazzo: era un’onda inarrestabile che stava per travolgere tutto. È stato allora che è cominciato il tradimento. [...] Improvvisamente i difensori della conservazione imbracciavano i fucili della rivoluzione. Eccola l’Italia, pensavo io davanti a quei disinibiti svolazzi, ecco perché siamo condannati a una guerra perenne per la vita, [...] tutti contro tutti. Stava nascendo, lo vedevo io come lo vedevamo tutti, un popolo di civette e quel popolo sarebbe stato l’italiano. Eravamo uccelli che si mimetizzavano, che sopravvivevano imparando l’arte di colpire alle spalle, di sorprendere nell’ombra, di rubare agli altri un seppur minimo vantaggio. Eravamo approfittatori e spergiuri, negavamo l’evidenza. (p. 168-169)
Gli eventi paiono dare ragione alla donna, perché i grandi ideali di libertà e rinascita per l’intera penisola vengono
presto sepolti sotto le ipocrisie, i cambiamenti di fronte, gli interessi
particolaristici. Le promesse che avevano infiammato il popolo vengono
disattese, i contadini ancora più oppressi, il Meridione in larga parte
dimenticato (“Se il Regno non aveva mai
pensato a noi, adesso l’Italia ci rifiutava”, p. 194). Chi ha combattuto
con Garibaldi non è più visto come un eroe, ma come un paria, su cui pesa lo
stigma sociale. E nel cambiamento che nulla trasforma sembra di risentire gli
echi della voce di Tancredi, il nipote del Gattopardo. Mentre le tensioni
sociali crescono, la vita civile si fa pericolosa per chi prova a opporsi. E
per la protagonista giunge, quasi suo malgrado, il momento di fare una scelta,
che coincide con la definitiva resa dei conti con un passato di soprusi e
sofferenze.
Per Maria l’ascesa al bosco è fuga dal sangue di cui si è macchiata le mani, dalla legge di un paese in cui non ci si riconosce, ma è anche una rinascita; il rituale del taglio dei capelli è un nuovo battesimo, e con esso arriva anche un nuovo nome: Ciccilla. A fianco al marito Pietro Monaco, ancor più di lei deluso dalle menzogne e dai voltafaccia di quelli che considerava mentori e modelli, Ciccilla è la prima donna a guidare un gruppo di quelli che verranno chiamati briganti, ma sono in realtà uomini che lottano per ciò che ritengono debba essere loro riconosciuto: le terre, i diritti, le promesse. È con un intenso lavoro di ricerca, che coinvolge tanto le lettere e la memorialistica risorgimentale quanto gli incartamenti processuali, che Giuseppe Catozzella costruisce un’opera imponente, che parla di speranze e di rivolte, di un’identità femminile ricercata e ribadita con convinzione e di un paese che la sua identità invece fatica, tuttora, a trovarla. Lo fa con una prosa precisa, che spesso ritorna ai documenti, e che pure riesce a scavare con lucidità in un’interiorità femminile che ha il coraggio, anacronistico, di pensarsi come un individuo e di desiderare qualcosa di grande per la propria vita. Lo fa rivelando una nuova maturità autoriale, che avvince alla pagina e alle sorti di Ciccilla, accompagnando il lettore a interrogarsi sugli aspetti problematici del processo unitario e portandolo a rileggere in una nuova ottica anche la valenza, polisemica, del titolo. Lo fa, soprattutto, narrando una storia epica di cui, in questo periodo di profonda crisi dei valori e dei punti di riferimento, abbiamo bisogno forse per trovare una nuova via.
Per Maria l’ascesa al bosco è fuga dal sangue di cui si è macchiata le mani, dalla legge di un paese in cui non ci si riconosce, ma è anche una rinascita; il rituale del taglio dei capelli è un nuovo battesimo, e con esso arriva anche un nuovo nome: Ciccilla. A fianco al marito Pietro Monaco, ancor più di lei deluso dalle menzogne e dai voltafaccia di quelli che considerava mentori e modelli, Ciccilla è la prima donna a guidare un gruppo di quelli che verranno chiamati briganti, ma sono in realtà uomini che lottano per ciò che ritengono debba essere loro riconosciuto: le terre, i diritti, le promesse. È con un intenso lavoro di ricerca, che coinvolge tanto le lettere e la memorialistica risorgimentale quanto gli incartamenti processuali, che Giuseppe Catozzella costruisce un’opera imponente, che parla di speranze e di rivolte, di un’identità femminile ricercata e ribadita con convinzione e di un paese che la sua identità invece fatica, tuttora, a trovarla. Lo fa con una prosa precisa, che spesso ritorna ai documenti, e che pure riesce a scavare con lucidità in un’interiorità femminile che ha il coraggio, anacronistico, di pensarsi come un individuo e di desiderare qualcosa di grande per la propria vita. Lo fa rivelando una nuova maturità autoriale, che avvince alla pagina e alle sorti di Ciccilla, accompagnando il lettore a interrogarsi sugli aspetti problematici del processo unitario e portandolo a rileggere in una nuova ottica anche la valenza, polisemica, del titolo. Lo fa, soprattutto, narrando una storia epica di cui, in questo periodo di profonda crisi dei valori e dei punti di riferimento, abbiamo bisogno forse per trovare una nuova via.
Carolina Pernigo