Autobiografia di Alice B. Toklas
di Gertrude Stein
Marsilio, marzo 2021
Traduzione di Alessandra Sarchi
pp. 320
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Ci sono veramente moltissimi punti di partenza possibili per raccontare questo libro. Si potrebbe partire dalla ricognizione delle numerosissime muse della letteratura, muse che spesso, come in questo caso, svolgevano anche le mansioni di segretarie, intrattenitrici di mogli di geni, correttrici di bozze, e persino editrici, come nel caso della casa editrice che Alice B. Toklas fondò per pubblicare le opere di Gertrude Stein che nessun altro voleva pubblicare. Oppure si potrebbe iniziare riscontrando come questa sedicente autobiografia non abbia assolutamente niente che la faccia rientrare nel genere autobiografico, tanto più che la contraddizione parte proprio dal titolo: Gertrude Stein finge di essere Alice B. Toklas che scrive la propria biografia, dunque apparentemente ingannandoci tramite quell’"auto-", ma allo stesso tempo svelando in realtà le sue vere intenzioni, quelle di usare lo specchio senza cornice della musa, invisibile per definizione, per parlare di sé, e scrivere dunque l’autobiografia sì, ma di Gertrude Stein.
Eppure anche Gertrude Stein stessa nel libro viene diluita: non c’è una narrazione della sua vita dall’infanzia alla maturità come ci aspetteremmo da un’autobiografia, corredata del tranquillizzante sguardo in retrospettiva che consente di saper individuare gli errori e romanzarli in una storia dotata di senso. Il romanzo schizza avanti e indietro, si focalizza su certi incontri, riprende qualcosa dell’infanzia e poi anticipa il futuro, saltando istericamente da un personaggio all’altro. Tutte le individualità del libro, da Alice che dice “io” all’onnipresente Gertrude che viene nominata all’incirca tre volte per pagina, e quasi altrettante volte incensata come un’enorme e incompresa scrittrice, vengono così diluite e sfumate in un mare magnum di geni della pittura, della scrittura, della fotografia. Nomi che sono finiti nell’Olimpo dell’arte – Picasso, Braque, Matisse, Hemingway, Man Ray – vengono messi a fuoco come persone prima che artisti, e messi a tavola a fianco ad artisti squattrinati persi nelle nebbie del tempo che oggi chi non è addetto ai lavori non riconosce quasi più. In questo intreccio bidimensionale di personaggi, orchestrato solo e unicamente dal gusto personale di Gertrude Stein, che in questo modo viene avvinto ai suoi rapporti di amicizia in modo così stretto da esserne indistinguibile, Gertrude e Alice non sono figure più grandi delle altre, ma sono semplicemente il perno centrale attorno a cui ruota questa galassia di pianeti fissi e di fugaci meteore. Per questo, in fondo, non ha senso scegliere un punto di partenza per capire questo libro, ma va semplicemente fruito senza aspettarsi una vera narrazione ascendente della carriera artistica di una donna che, alla prova del tempo, è passata alla storia più come mecenate che come scrittrice. Per questo si potrebbe dire che in quest’opera Gertrude Stein alla fine dei conti è tremendamente onesta: vincolando la sua vita e il suo gusto alle persone che la circondano, la sua autobiografia non poteva essere diversa da così, trasformandosi nella forma scrittoria del famoso studio di rue de Fleurus dove i quadri che ricoprivano i muri rappresentavano non solo il gusto dell’avanguardia dell’epoca ma soprattutto il gusto della proprietaria di casa.
È però indubbio che, a quasi un secolo di distanza, rimane decisamente ostica la lettura di una tale galassia di personalità accostate a voler creare dei quadretti più che una narrazione univoca, e la cui scelta, nonostante l’indubbio acume critico della Stein, rimane viziata dai suoi rapporti di amicizia e anche dalla propria magnifica autoimmagine di scrittrice. Nella prefazione, Alessandra Sarchi, traduttrice e curatrice, sottolinea questa indubbia tendenza della Stein a dare risalto nella sua autobiografia ad artisti non solo in virtù della loro bravura ma anche per il loro ruolo di supporto alla produzione steiniana, eccedendo forse in severità, e applicando lo sguardo retrospettivo della critica d’arte del ventunesimo secolo per scovare gli artisti di cui la Stein non fa menzione. Tuttavia, che l’arte e gli artisti abbiano uno spazio così ampio in un’autobiografia letteraria è un segnale che per Stein il gusto personale è esattamente ciò che informa il nucleo vivo di quest’opera, la volontà di scrivere un’autobiografia di una vita passata a fruire, scegliere e a creare arte, a incontrare e a plasmare artisti, e farsene plasmare.
Per questo, nella narrazione di uno spettacolo a teatro, che oggi in retrospettiva sappiamo identificare come fondamentale nella storia della musica, non dobbiamo censurare la scelta di Stein di focalizzarsi non sulla musica ma sulla descrizione della camicia plissettata di un personaggio che diventerà un habitué di rue de Fleurus e che colpì così tanto la Stein che quella stessa notte, appena tornata dallo spettacolo, scrisse su questo sconosciuto uno dei suoi numerosi ritratti letterari. Lo stesso scopo autoreferenziale è servito dall’omissione di tutte quelle scrittrici che, sempre con lo sguardo del ventunesimo secolo, hanno chiaramente oscurato la scrittura della Stein, in particolare la Woolf, che, per la Sarchi, è assai difficile che non sia stata conosciuta da una scrittrice così attenta alle tendenze e ai movimenti che la circondavano. Ma se la vita della Stein è indissolubile dall’arte che l’ha circondata, un’autobiografia onesta non avrebbe potuto essere una ricognizione artistica come potremmo farla noi oggi: la potenza di quest’opera è proprio nell’estrema soggettività, nel cono di luce della Stein che illumina un angolo fenomenale di società e di storia dell’arte, attraverso un gusto personalissimo e passato alla storia, il quale va a coincidere con la vita stessa raccontata nell’autobiografia.
L’autobiografia di un gusto, dunque. Ma perché leggerla oggi, si chiede perfino la Sarchi? Spostando l’attenzione sulla produzione letteraria della Stein, la quale è al centro della narrazione tanto quanto le schermaglie con i vari artisti e gli innumerevoli spostamenti di Toklas e Stein in giro per l’Europa, c’è un dettaglio su cui la Stein ritorna sempre: la qualità del suo fraseggio, la sua volontà di creare frasi belle, piane, poetiche. Ma soprattutto nuove, individuali, fatte a modo suo e solo suo. Perfino nelle lunghe sedute di posa per il celeberrimo ritratto che le fece Pablo Picasso, la Stein ci dice che per far passare le ore lei rimuginava e affinava le frasi di quello che poi sarebbe diventato C’era una volta gli americani, il romanzo che, sempre secondo l’ego smisurato della Stein, avrebbe rivoluzionato la letteratura e aperto le porte del Novecento. Il fraseggio di Stein è caratterizzato dall’assenza di virgole che, in questa edizione, viene reintrodotto. La traduttrice giustifica così la sua scelta, citando un passo del libro in cui un autore contemporaneo di Stein la invitò ad aggiungere più punteggiatura nella sua scrittura:
Ma anche dal punto di vista formale, la prosa di Stein è tutt’altro che esatta e formata da frasi perfette come lei si compiace di affermare; si consideri l’abolizione arbitraria della punteggiatura e la giustificazione che ne viene data nell’Autobiografia: «Gertrude Stein disse che le virgole non erano necessarie, il senso doveva essere intrinseco e non spiegato dalle virgole, e che in caso contrario le virgole erano solo un segno che indicava di fare una pausa e tirare fiato, anche se uno doveva sapere da solo quando fermarsi a prendere fiato. Tuttavia, poiché le piaceva moltissimo Haweis e lui le aveva regalato un delizioso dipinto per ventaglio, gli concesse un paio di virgole. Bisogna dire però che nella rilettura del manoscritto finì per toglierle.» Il paragrafo è un classico esempio di snobismo autoreferenziale: il disprezzo per la punteggiatura non facilita la sua scrittura, anzi le toglie un mezzo espressivo, e quello che forse era intellegibile all’epoca perché radicato nelle cronache mondane e nel gossip dei circoli culturali ai quali Stein ammicca con l’Autobiografia diventa ostico per il lettore moderno, tanto che nella presente edizione e traduzione si è preferito aggiungere i segni di interpunzione che mancano quasi del tutto nel testo originale. (pp. 13-14)
È lecito a questo punto chiedersi, come può snaturare l’aspetto linguistico del testo originale e l’individualità estrema che esso veicola (individualità che, lungi dall’essere “snobismo autoreferenziale”, è necessariamente parte di qualsiasi autobiografia, anche quelle sotto mentite spoglie con quella in esame) facilitare la fruizione della materia, che, virgole o non virgole, rimarrà comunque ostica a un lettore moderno che non abbia più di un’infarinatura scolastica di storia dell’arte? Se l’Autobiografia di Alice B. Toklas è un gioco di specchi di arte e artisti che mescola vita e gusto, è giusto che anche lo stile rispecchi quanto più possibile l’individualità della scrittrice. Il libro infatti, nonostante la punteggiatura aggiunta in grande quantità (quantità che poteva benissimo essere almeno ridotta), rimane senza dubbio ostico, perché, seguendo le intenzioni dell’autrice, procede con un totale disprezzo del lettore e delle sue capacità di comprensione, recuperando personaggi accennati, anticipando dettagli che poi vengono riportati in ballo trenta pagine dopo, rifacendosi a oscuri dettagli di costume dell’epoca. È, indubbiamente, un libro difficile, uno di quei libri che l’editoria italiana rigetta, e la cui pubblicazione è senza dubbio indice di grande coraggio. Ma è anche uno squarcio senza pari nell’individualità di un personaggio cardine nel panorama artistico del primo Novecento, che merita un tentativo: ignorando completamente il lato del lettore, il lettore viene inconsciamente sfidato a seguire una storia che non cerca di circuirlo, sebbene così egli o ella corra il rischio dell’estraniamento, del sentirsi abbandonato durante la lettura. Ma vale la pena di provare a lasciare andare la mano che ci guida, per essere ripagati da una folla di personaggi spettacolari, di artisti, domestiche, soldati, mogli di geni, megalomani, squattrinati, irrazionali, timidi o esagerati. E per capire cosa Gertrude Stein pensava di sé, detto davvero senza freni grazie al filtro narrativo della donna che più di ogni altro ammirava Gertrude Stein. E cosa c’è di meglio di un’autobiografia davvero senza freni?
Marta Olivi
Marta Olivi