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"Finché Picasso non ci separi": cinque "signorine", un dipinto iconico e l'abbandono della bellezza nel libro di Giuseppe Di Giacomo

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La bellezza abbandonata
di Giuseppe Di Giacomo
Il Mulino, 2021

pp. 126
€ 12,00 (cartaceo)
€ 5,94 (ebook)


Il verbo “abbandonare” è tra quelli a cui meno si addicono le mezze misure. C’è troppo poca approssimazione nei veri abbandoni, anzi non ce n’è affatto, e forse è proprio da questo loro carattere così definitivo e irreversibile che deriva la spietatezza del dolore che sanno arrecare a chi li subisce; per non parlare, poi, del tormento pur sempre presente nell’animo di chi si trova costretto, con peso o con sollievo, a metterli in atto. Tutti, presto o tardi, abbiamo sperimentato le due occorrenze, e ci basta il solo colpo del loro diapason mnemonico per ripassarne una dopo l’altra le dolenti note. Sappiamo anche, sempre per esperienza, che alcuni abbandoni sono fisici, pratici, concreti, mentre ne esistono di altri più spirituali, ideali, astratti. Si abbandonano persone, animali, luoghi, oggetti, ma lo stesso capita con le idee, le convinzioni, le fedi, le cause. Abbandoniamo, veniamo abbandonati e assistiamo agli abbandoni altrui: qualcosa finisce, si ferma e muore, ma quasi sempre, di lì a poco, qualcos’altro ricomincia, riparte, rinasce.

Proviamo adesso a immedesimarci nei protagonisti di un abbandono eclatante, accaduto nell’epicento culturale della vecchia Europa poco più di un secolo fa. Da una parte c’è uno dei più grandi artisti della storia, dall’altra il principale presupposto che da tempo immemore ha determinato le sorti della pittura, della scultura e non meno dell’architettura: lui è Pablo Picasso, e “lei” è la bellezza. Tra di loro, agli albori del Novecento, si palesano con progressiva nitidezza gli spettri del distacco e del rifiuto, finché la definitiva presenza su tela di cinque "signorine" (con l’iniziale complicità di un marinaio e di uno studente di medicina) separano definitivamente il giovane pittore dalla sua vecchia (e infedele, e insoddisfacente) amante. È il 1907, Les demoiselles d’Avignon sono appena venute al mondo, e nulla più, nelle menti e negli sguardi degli uomini, sarà di nuovo come era stato fino ad allora: la bellezza – intesa nel suo ideale convenzionale, nel suo ruolo canonico e consueto, nel suo sembiante fatto di norme, regole e proporzioni tramandate con cura come una dote nuziale per innumerevoli unioni e filiazioni – è stata abbandonata per sempre. Mai crisi di coppia fu più chiacchierata, ma mai come dal travaglio di quella scissione nacquero nuove forme, nuove maniere, nuove vie: perché è stato proprio quello, in fin dei conti, l’inizio dell’arte moderna, un incipit a cui Giuseppe Di Giacomo ha dedicato il suo ultimo saggio appena pubblicato dalla casa editrice Il Mulino all’interno della collana “Icone. Pensare per immagini” curata da Massimo Cacciari.

Articolato in un’Introduzione e cinque capitoli – Genesi e interpretazioni delle Demoiselles d’Avignon; La grande tela; Da Cézanne al cubismo: astrazione e primitivismo; Epifania e sacralità nell’opera di Matisse; Matisse e Picasso: Salvezza e CadutaLa bellezza abbandonata si configura al contempo come breve biografia del capolavoro picassiano (intesa come origine, vita e fortuna critica del dipinto) e come sua precisa interpretazione autoriale in quanto opera sia di cesura che di cerniera. Di Giacomo ripercorre dunque la vicenda che portò “il fu Le bordel philosophique” dai suoi primi abbozzi alla compiutezza finale, calando il processo creativo ed esecutivo picassiano all’interno del sistema di influenze e di contatti in cui convissero le ricerche del pittore, e dunque a confronto con quelle di altri grandi maestri del modernismo che a loro volta avevano cominciato, ciascuno a suo modo, a spostare l’attenzione sulla forma più che sul contenuto. Ma a distinguere l’opera di Picasso, e dunque a renderla così eccezionale al punto da conferirle un primato sulle soluzioni coeve, è stato, spiega lo studioso, l’avere portato alle sue estreme conseguenze la polemica sulle convenzioni (più che sulle tradizioni) vigenti, meglio ancora sulla convenzione delle convenzioni, ovvero la bellezza in quanto rosa dei venti dell’arte e degli artisti. Rivoluzionando la forma in modo violento e radicale, e dandone un primo saggio a tutti gli effetti “teatrale” sui corpi e ancora più sui volti delle cinque prostitute, Picasso ha ulteriormente e definitivamente spostato il baricentro dell’attenzione dalla casistica delle tematiche possibili all’unico tema per lui davvero cruciale in quell’inizio di nuovo secolo, ovvero il tema dello sguardo (del pittore, dell’artista, dell’essere umano): sguardo non solo come modo per restituire il reale, ma come strategia per affrontare e trasporre “magicamente” il mondo – inteso come mondo di paure, timori, inquietudini e tormenti ineliminabili – proprio grazie a modalità di applicazione e traduzione inedite. È in questo modo che le suggestioni primitiviste da una parte e le sperimentazioni cubiste dall’altra hanno generato un dipinto divenuto icona per la sua capacità ininterrotta di interrogare spietatamente il suo osservatore, e di essere sempre, allo stesso modo, inquisito e inquisitore. Uno snodo fondamentale, dunque, nonché gravido di conseguenze future proprio per la sua natura non consolatoria, che nel non offrire allo spettatore il conforto di una visione pacificata e la prospettiva di un possibile Eden raggiungibile in virtù del medium artistico (come fino ad allora era sempre stato, e come altri suoi colleghi, Matisse in primis, continuavano a “predicare”), lo condanna a una realtà che tra le molte dimensioni ha ormai perduto quella storicamente salvifica del Bello. Uno smacco plateale, un conto che non torna: una Re nudo, proprio come una ragazza a ore.

In poco più di cento pagine – ovvero, data l’importanza del tema, in una misura apparentemente minima e ingrata – Giuseppe Di Giacomo è riuscito a concentrare ciò che nelle Demoiselles d’Avignon è quid, busillis e casus belli: un compito tutt’altro che semplice, “uno e trino”, in cui convivono la necessità di determinare l’essenza dell’opera, di coglierne il cuore problematico e di spiegare perché e come abbia dichiarato guerra a un sistema di rappresentazione ancora non sufficientemente pacificato nonostante alcuni espliciti rivolgimenti interni. Se è vero che la bibliografia su Picasso e in particolare sulle sue “signorine” è varia e autorevole – e Di Giacomo la cita in più momenti – questo nuovo contributo ha dalla sua il pregio di invitarci a guardare a una delle opere più iconiche del Novecento (e oltre) attraverso una lente originale come quella dell’abbandono, e non un abbandono di poco conto: un punto di vista, questo, che evidentemente già coincide con uno dei presupposti che hanno determinato l’esistenza stessa del dipinto, ma che così esplicitato aiuta a cogliere in modo più chiaro e più nitido il senso di quella fine e di quel nuovo inizio sia nella loro concretezza pittorica che nella loro potenza concettuale. In più, lungi dal ridursi a una mera disamina tutta interna all’hortus conclusus dell’arte in sé e per sé (il che sarebbe stato in effetti molto “modernista” oltre che molto autoreferenziale), Di Giacomo ci ricorda (tanto in apertura quanto in chiusura) che c’è una ragione precisa se il valore delle Demoiselles equivale a quello dei grandi classici che non hanno mai finito di dire ciò che avevano da dire: se questo lavoro comunica qualcosa di così profondo e determinante ancora oggi, a più di centodieci anni dalla sua epifania, è perché adesso come allora è acuto e lancinante il senso di una transizione in atto, di una trasformazione in corso, che nelle sua ricerca di valori e certezze ulteriori somiglia ancora un divenire incerto, episodico e slegato. Contemplare il dipinto picassiano per eccellenza in questo nuovo inizio di millennio significa contemplare ancora una volta la crisi dell’essere umano alle prese con il conflitto dualistico tra immanenza e trascendenza, la crisi dei suoi strumenti e delle sue strategia di redenzione, la crisi data dalla pluralità di scelte come dalla mancanza di opzioni; una crisi, a ben guardare, ontologica e “bellissima”, e che come tale non lo abbandonerà mai.

Cecilia Mariani