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Oltre le resistenze per trovare una "cara pace": il romanzo famigliare di Lisa Ginzburg candidato al Premio Strega

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Cara pace
di Lisa Ginzburg
Ponte alle Grazie, 2020

pp. 249
€ 16,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)
 
Nessuno, vedendo Maddalena nell’orizzonte sereno del suo presente – moglie di un diplomatico importante, madre di due figli perfetti, frequentazioni altolocate – potrebbe mai dirla prigioniera. Prigioniera di ruoli imposti dall’esterno, di un rapporto simbiotico con una sorella dalla personalità ingombrante, di ricordi da un passato non così lontano che ancora condiziona. A dominare la maggior parte della sua giovinezza è infatti il legame con Nina, reso particolarmente stretto dalle circostanze specifiche che hanno portato i genitori, lungo direttrici e con motivazioni diverse, ma sempre più lontani dalle figlie. E Nina è figura capricciosa, egocentrica, affascinante; perennemente orientata agli altri per aver conferma di sé, ha bisogno di continue attenzioni, che reclama attraverso grandi drammi, grandi stizze, grandi ma effimere passioni. Tanto Maddi è pacata e composta, tanto Nina dirompe, esagera, invade. Eppure tra le due si consolida un’unione indissolubile, necessaria, fin da quando da piccole si aggrappano l’una all’altra mentre vedono la propria famiglia disgregarsi:
l’una per l’altra sponde, argini al caos che ci trovavamo ad attraversare, quel gran pasticcio cui senza chiedere alcun nostro parere eravamo state consegnate. Il nostro patto era uno scudo, un carapace. (p. 31)
Per tutto il loro percorso di crescita non ci sono infatti che loro, a fare affidamento l’una sull’altra, mentre la madre e il padre trascorrono ai margini della vista, come meteore più o meno luminose, ma sempre transitorie. Narrando da una prospettiva posteriore agli eventi rappresentati, Maddi torna a più riprese sui traumatici trascorsi, cercando di ricostruirne il senso e di far luce sulle incongruità dei loro presenti. E forse anche in quest’ottica, che pure non è l’unica, si deve leggere il desiderio improvviso della narratrice di congelare provvisoriamente la sua vita parigina per tornare a visitare Roma.
Ora che Gloria è morta, ora che ci ha lasciati di colpo e questa volta per davvero, la nostra infanzia esplosa rischia di cancellarsi; prove tangibili mancano, gli scenari sono diversi, Nina, io, Seba, anche Mylène, tutti rispetto al passato viviamo altrove. Andare a Roma e tenere vivi i ricordi, impedisce che sbiadiscano. (p. 40)
Si tratta quindi di un ulteriore tentativo di trattenere la memoria, e se la memoria procede a lampi, a sprazzi discontinui, così fa anche la scrittura, in cui frammenti di ricordo vengono accostati a costruire un patchwork del ricordo: la narrazione si muove su differenti piani temporali, tra il passato e il presente, continuando a fluire dall’uno all’altro. Con una prosa piana, elegante, Ginzburg riesce a centrare con puntualità e delicatezza l’essenza delle relazioni tra i personaggi, a restituire la malinconia di uno sguardo retrospettivo a un passato non ancora del tutto risolto. Quella di Maddalena è un’infanzia di bambina timida, schiacciata da responsabilità da adulti prese su spalle troppo gracili; vittima di terribili attacchi d’asma nei momenti di maggiore pressione, la giovane non riesce a liberarsene fintantoché rimane nell’orbita della famiglia e dei luoghi consueti, di dinamiche troppo consolidate per essere smosse, e fatica a immaginare una vita diversa proprio mentre nascostamente la desidera:
Certe volte sognavo di scappare. Sottraendomi alle responsabilità che da sola avevo stabilito come mie, inventarmi un’altra esistenza, un’altra Maddalena, lontano. Troppo distratta dalla vita degli altri – da quella di Nina specialmente – trascuravo la mia. Lo sapevo, e per quello mi autorizzavo a vagheggiare ogni tanto delle fughe. Non pensavo al futuro, non coltivavo ambizioni. (p. 52)
È ancora giovane, Maddi, quando si convince che per poter vivere davvero è necessario rendere “il carapace meno poroso”, ritrovare una centratura su se stessa, e che l’unico modo per farlo è allontanarsi, guardare alla propria esistenza da lontano – con il distacco necessario per distinguerne i contorni finalmente con più nettezza. Non solo Genzano, dove la famiglia vive prima dell’allontanamento di Gloria, ma anche Roma calza stretta a chi non riesce a trovare un proprio spazio di libertà. Lasciate in balia di loro stesse da una madre inquieta che ha scelto un’altra via, dando la precedenza a se stessa e creando un vuoto incolmabile, e da un padre che seppellisce in un lavoro frenetico il malessere dell’abbandono subìto, le due sorelle crescono insieme – costruendo una corazza unica che le protegge entrambe, e al contempo le tiene avvinte. Nina e Maddi si sentono parti di un insieme, “ci univa un’addizione, la stessa che generava il nostro patto. In mezzo a noi due, segno di somma e suo motivo, Gloria, la sua assenza/presenza” (p. 153). Al contempo, nell’addizione si rivela anche la somma dei pesi singoli, che non appaiono più lievi da portare solo perché distribuiti su due schiene, ma anzi si esacerbano.
Nel romanzo, anche l’infanzia è letta col filtro della prospettiva adulta: le due bambine parlano già come le donne che diventeranno, si pongono interrogativi molto più grandi di loro (“dialoghi assurdi, sproporzionati, quelli anche fuori misura”, p. 73). E nemmeno crescendo il dolore che le morde dentro – pur diversamente esternato, secondo i due caratteri così difformi e in qualche modo complementari – si muta in “malinconia addomesticata”: “la verità era una soltanto: che soffrivamo, una pena acuta e che non si attenuava mai” (p. 124). La pace a cui allude il titolo è allora un’ambizione che pare irraggiungibile, meta agognata, bramata, ma per tanta parte della vita delle protagoniste (e del romanzo) sempre spostata un po’ più in là. Prevale invece quella barriera, quella resistenza, quel carapace che risuona della pace desiderata rendendola però al contempo inaccessibile. Ci vorrà del tempo perché il “carapace” lasci spazio a “molta pace”, e non è detto che questa sia definitiva.
Nella memoria di Maddi è sempre Nina la più pervasiva: non è dei propri sentimenti, dei propri amori, che la narratrice racconta, ma in prima istanza di quelli della sorella, o della madre, figure vicine e amatissime, ma impedenti, pronte a mettere in ombra chi sta loro vicino. Anche a distanza di vent’anni, quando vive a Parigi una quotidianità serena, organizzata e priva di scosse insieme al marito e ai figli, Maddalena vive quasi per interposta persona, rifiutando di affondare le radici nel nuovo paese, di stringere legami, occupandosi con una cura fin troppo studiata e precisa della propria famiglia e dei doveri che impone. Forse allora per riappropriarsi, davvero e per la prima volta di sé, è necessario un ritorno sui luoghi degli strappi per provare a riunirne i lembi, a creare un nuovo intero: “rivedere la città di Nina e mia, illudermi per qualche giorno di ricomporre un mosaico le cui tessere si sono perse quasi anche nella memoria. Suturare un taglio che non si ricuce” (p. 228).
È un peccato che nel testo venga dato poco spazio, e solo in coda, a questo percorso di ritorno, che è in realtà necessario trampolino per la protagonista per poter poi andare avanti. Perché riscoprire se stessa porta Maddalena ad avvicinarsi in un modo inedito alla madre e alla sorella, a comprenderle più profondamente, ma anche a sentirsi più affine a loro, al loro modo impulsivo ed energico di affrontare l’esistenza. Le spalanca dinanzi nuove possibilità, di cui bisogna però vagliare i limiti. È infatti difficile, dopo così tanti anni passati a proteggersi, trovare il coraggio di aprirsi, di smontare il proprio carapace e interrogarsi su quale sia davvero la via della pace, o se sia poi davvero quella che si vuole percorrere. Al contempo, gli interrogativi che si aprono senza risolversi appieno in coda all’opera sono il punto di approdo della riflessione condotta attraverso l’intero romanzo e ne possono costituire, pertanto, il vero compimento.

Carolina Pernigo