L'influenza delle stelle
di Emma Donoghue
Società Editrice Milanese, aprile 2021
Traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini
pp. 320
€ 18,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Ci si ritrae spaventati per lo starnuto di una persona accanto a noi. Si gira con una maschera o con qualunque strumento di fortuna ci possa coprire naso e bocca. Fuori dalle farmacie, cartelli annunciano l'esaurimento delle scorte di sostanze igienizzanti. Gli ospedali sono al collasso.
Sono scene ben vivide nella nostra memoria, anzi, molte di loro sono ancora parte della nostra quotidianità. Ma L'influenza delle stelle di Emma Donoghue non parla della pandemia che ci ha colpiti da inizio 2020. Fa un salto indietro di un secolo esatto per raccontare dell'altra grande influenza che ha causato più morti della Prima Guerra Mondiale.
Uno spettro con tanti nomi: la grande influenza, l'influenza cachi, l'influenza blu, l'influenza nera, la grippe, ovvero la presa... una parola che mi faceva sempre pensare a una mano pesante che si posava sulla spalla e la stringeva forte. La malattia, si limitavano a chiamarla alcuni, con un eufemismo. (p. 8)
Julia Power è infermiera nel reparto maternità dell'ospedale di Dublino nel 1918. Oltre che con le normali complicazioni dei parti, con la malnutrizione e l'estrema povertà di quasi tutte le sue pazienti, ora si deve scontrare con la carenza di medici, di personale e con l'influenza spagnola che nelle madri in attesa può portare a problemi di vario livello, fino ad arrivare alla perdita del bambino. Nell'arco temporale di tre giorni, Julia, Bridie Sweeney, un'orfana volontaria con un passato di abusi alle spalle, e la dottoressa Kathleen Lynn, un'attivista del Sinn Féin chiamata in servizio per carenza di medici, lotteranno contro influenza e le incertezze dei parti delle donne loro affidate. Nella speranza, troppo labile, che tutto finisca per andare bene.
Nella lettura di questo romanzo sorge un ragionevole dubbio: quanto dello sguardo moderno c'è nel raccontare la vicenda di una pandemia? Attraverso Julia, voce narrante in prima persona, assistiamo alla mancanza di informazioni o informazioni mal date e contraddittorie da parte degli organi di governo; alla colpevolizzazione della popolazione che se si ammala viene definita "disfattista" o poco osservante delle regole; a mezzi pubblici intasati e insufficienti quando si raccomanda di osservare una distanza di sicurezza; alle assurde credenze per cercare di tenere lontano il morbo, come i gargarismi con l'aceto di sidro; alla mancanza di terapie efficaci e di spazio dove poter concedere ai malati la possibilità di guarire. Due sono le possibilità di lettura di queste descrizioni: la prima è che l'autrice – dopo la consegna della bozza finale avvenuta nel marzo del 2020 – abbia deciso di usare una vicenda lontana un secolo da noi per riflettere sulle mosse errate che sono state fatte anche in tempi odierni; la seconda è che l'umanità non sia cambiata negli ultimi cento anni e che la capacità di reagire a un evento così traumatico e sconvolgente sia sempre carente o comunque improntata alla confusione e alla contraddizione. Le due possibilità non si escludono a vicenda e la scelta narrativa di una pandemia ormai consegnata alla storia, forse può consentirci di ragionare con un po' più di distacco e con le dovute proporzioni su ciò che sta succedendo adesso.
Vista l'ambientazione in un reparto di maternità, la componente dei personaggi è prevalentemente femminile e sono tutte donne che riflettono in qualche modo la condizione dell'Irlanda di inizio Novecento fornendo, tra l'altro, sfaccettature a cui non siamo abituati a pensare. Perché se è vero che per L'Irlanda ci viene da pensare all'estrema povertà – incarnata da alcune delle gestanti e, tra i personaggi principali, da Bridie, figlia illegittima e tenuta a rifugio dalle suore –, alla rivolta contro la Gran Bretagna – incarnata dalla dottoressa Lynn, figura storicamente esistita – e al cattolicesimo oppressivo contrario a ogni sorta di contraccezione e ad accettare che le donne possano fare meno di dodici figli, con il personaggio di Julia scopriamo una facciata irlandese meno ovvia.
Julia, donna e infermiera di ostetricia, non ha figli e non ha mai nemmeno avuto il desiderio di averne nonostante sia ormai arrivata a trent'anni. Julia è irlandese, ma non facinorosa e nemmeno così piena di rancore verso la monarchia inglese.
Non avevo obiezioni a farmi governare da Dublino invece che da Londra, purché il passaggio potesse svolgersi pacificamente. Ma gli scontri a fuoco per le strade nel '16 non ci avevano di certo avvicinato alla possibilità della Home Rule. Semmai avevano portato l maggioranza di noi a odiare quei pochi che avevano fatto scorrere il sangue nel nostro nome. (p. 9)
Suo fratello ha combattuto per il Re, ne è tornato spezzato e deve subire le angherie dei bulli di quartiere che lo accusano di essere un servo degli inglesi. Ben lungi dall'idealismo, Julia è una donna estremamente pratica che ben sa che per i poveri, per la gente comune come loro, la guerra c'è sempre: può arrivare portata da ogni parte, da ogni soffio di vento. La guerra può essere nelle trincee, nel cercare di recuperare qualcosa per sfamare i propri figli, nel resistere alle violenze domestiche per le sue donne in maternità, nel sopravvivere alla grippe. Alla fine, si è tutti sotto il dominio del Grande Livellatore, del Tutt'Ossa che è sempre in agguato dietro le porte del suo reparto.
Un romanzo molto scorrevole – per quanto le scene dei parti possano essere vivide e impressionanti nella precisa descrizione delle tecniche mediche e chirurgiche di inizio Novecento – e toccante per il delicato intrecciarsi di nascite sotto l'egida di questo morbo invincibile.
C'è una domanda che si pone Julia e che è forse il momento di massima vicinanza che avvertiamo nella narrazione della pandemia.
Se la guerra fosse finita, che cosa ne avrebbe preso il posto? (p. 181)
Dopo lunghi mesi di quotidianità spezzata e interrotta si potrà tornare alla vita di prima? E in che modo, a quale prezzo? Julia distoglie subito il pensiero, si concentra su quello che la giornata che ha davanti le sta per richiedere. È quello che stiamo facendo anche noi, nell'avvicinarci alla fine – si spera – di questi mesi di pandemia: ci domandiamo come sarà il dopo, ma poi navighiamo a vista. Un passo alla volta, un giorno alla volta, confidando che le stelle e la loro influenza possano offrire un finale positivo.
Giulia Pretta