Prosegue la mia intensa full immersione negli anni Venti del secolo scorso, i famosi Roaring Twentis, e quindi non potevo non incontrare Fitzgerald e i suoi racconti dell’età del jazz (Tales of jazz age), in questo intenso e sincopato viaggio agli albori di questi anni così vicini a noi e così lontani, appena un secolo fa. Un secolo che per gli americani rappresentò il proibizionismo e anche l’ascesa vertiginosa della musica Jazz.
Questi undici racconti, pubblicati per la prima volta nel 1922, avevano, nell’intento dell’autore, il fine di far guadagnare qualche soldo extra al loro autore, impegnato a pubblicarle dapprima sulle riviste, nell’arco di tempo trascorso tra un romanzo e l’altro, e infine pubblicati insieme, nella seconda raccolta di racconti di questo autore.
Non stiamo parlando però di storie utili solo ad un mero scopo economico, come si evince dallo stile compiuto con cui vengono delineati i tratti di un’epoca, dei suoi personaggi e anche guardando al successo che alcune di queste opere ottennero in chiave cinematografica.
I racconti dell’età del jazz sono dei piccoli affreschi meravigliosi di un’epoca densa di vita e di feste, ma anche una finestra sul mondo di Fitzgerald e della middle-class, dedita al lusso sfrenato di feste memorabili, ma anche piena di conflitti nascosti, di una voglia di vivere che maschera la paura di morire, di un effimero sentimento che vogliamo a tutti costi duraturo, come l’amore.
Per Fitzgerald scrivere racconti era un’attività redditizia e spesso egli stesso è stato un ingiusto detrattore delle sue opere brevi, dichiarando che per lui, scrivere racconti “era come prostituirsi” e che in fin dei conti gli servivano per poter vivere e scrivere romanzi, e infatti spesso li scriveva contemporaneamente. Ma in questi racconti c’è una magia, un senso di sperimentazione, una verità di scrittura tale da renderli preziosi e assolutamente imperdibili. È di questo avviso anche Giuseppe Culicchia, a cui è stata affidata la traduzione e che in postfazione ci confessa quali sono i suoi racconti preferiti (che per inciso sono anche i miei). Tra questi “il diamante grosso come il Ritz” (1922), “Lo strano caso di Benjamin Button” (1922), “Oh, strega dai capelli rossicci!” (1921) e infine “Quel che resta della felicità” (1920).
Una prima edizione italiana fu curata, nel 1968 per Mondadori e poi ripubblicata con introduzione di Fernanda Pivano, nel 1980. In seguito anche la Newton Compton ne propose una sua edizione, qualche anno fa.
Se dovessimo paragonare l’alta società degli anni Venti del secolo scorso, seppure destinata come sappiamo al suo tracollo agli albori degli anni Trenta, ai nostri giorni, il paragone sarebbe impietoso. Fitzgerald e la moglie Zelda erano davvero l’emblema del lusso e della frenesia, dell’eccesso e del simbolo. Miti assoluti in un’età del mito, mentre il jazz riempiva ogni angolo del loro mondo, e risuona ancora in noi, attraverso questi quadretti di vita mondana, a tratti squallidamente banale e ordinaria, quando l’aspettativa restava disillusa e di quel mondo si poteva solo sbirciare attraverso le feste e i costumi eccentrici. Ma lo scrittore ne fa anche un furioso affresco di denuncia, come ne “Il diamante grosso come il Ritz”, che ci mostra tutta la banalità di questo mondo di disparità sociale, lo sfruttamento che sta alla base delle ricchezze di chi è privo di scrupoli e valori, dove per un momento, il giovane John sogna di poter vivere, nel lusso e nello sfarzo, prima di scoperchiarne la facciata:
Stava cercando di godersela il più possibile. La felicità e anche il difetto della giovinezza stanno nel fatto che questa non può mai vivere nel presente, ma deve sempre paragonare ogni giorno col suo stesso futuro, fulgidamente immaginato, fiori e oro, ragazze e stelle, non sono che premonizioni e profezie di quell’incomparabile, irraggiungibile sogno giovanile. p. 212
E che dire della disillusione giovanile dei sogni, descritta meravigliosa in “Oh, strega dai capelli rossicci”?
Ma da Pulpat quella sera ci fu un fuoriprogramma eccitante, un fuoriprogramma di prima qualità. Una ragazza dai capelli rossicci con sfumature viola salì sul tavolo e prese a ballare sopra. «Sacré nom de Dieu! Scendete subito di lì!», gridò il capocameriere. «Fermate la musica!»
Ma i musicisti stavano già suonando così forte che poterono fingere di non aver sentito quell’ordine; essendo stati giovani, si misero a suonare più forte e allegramente che mai, e Caroline danzò con grazia e vivacità, l’abito rosa e vaporoso che le roteava intorno e le agili braccia che compivano gesti leggeri e morbidi nell’aria satura di fumo. p. 314
Come Caroline anche noi balliamo alla nostra giovinezza, alla giovinezza di una giovane America che si riscopre in grado di progettare le macchine di Ford e ogni sera balla sulle note più sfrenate delle orchestrine, e sogniamo le nostre vacanze a Capo d’Antibes, dove Francis e Zelda incontravano gli amici, in un’eterna vacanza che non finisce mai, come la magia di questi racconti così densi di vita e nostalgia.
Samantha Viva
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