L'albero di mandarini
di Maria Rosaria Selo
Rizzoli, aprile 2021
pp. 346
€ 18.00 (cartaceo)
€ 9.99 (e-book)
Nunzia si chiedeva cosa ci fosse in Maria che a lei sfuggiva. Certe volte quella figlia le pareva un'estranea, partorita per caso nel caldo di giugno. Era convinta che la bambina non accettasse la realtà che la circondava, la miseria che la avvolgeva. Fingeva, o s'illudeva, di essere qualcun'altra. Le diceva di stare coi piedi per terra, che la gente povera deve fare attenzione a non avere ambizioni o sogni che poi si infrangono procurando dolore. Ma Maria non le credeva, voleva i sogni, usciva dal ruolo e questo la mandava in bestia. (p. 39)
Napoli, 1940. Tra i vicoli della città, dalle parti di Piedigrotta, una salitella porta a un'abitazione modesta sì, ma non un basso, come quelli di Cupa Caiafa, il vico a ridosso di corso Vittorio Emanuele. Villa Santa Maria è più un casolare, con un pezzetto di terra a fianco, di proprietà della chiesa di Piedigrotta, dove si coltivano pomodori e dove svetta un profumato albero di mandarini, rifugio, amico e confidente di Maria, 9 anni di determinazione e carattere. Papà Giovanni è tramviere, mamma Nunzia, "a sberressa", è sarta e poi ci sono Elena, quella sorella così diversa, così concreta, e Gigino, il piccolo di casa.
Il romanzo di Maria Rosaria Selo, "L'albero di mandarini", da poco uscito per Rizzoli, prende avvio durante gli anni cupi della Napoli bombardata, della povera gente costretta ad ammassarsi nelle gallerie, nei buchi per sfuggire alla morte, alla distruzione, alle bombe che cadono dal cielo e riducono tutto in polvere. Un quadro storico vivo, pulsante, nel quale si muove la famiglia Imparato. E con lei gli altri protagonisti di questa prima parte del libro. Che, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi richiama gli esiti migliori della narrativa napoletana contemporanea: Nunzia Capece, la madre dura, apparentemente anaffettiva, tagliente e verace, non può non richiamare alla mente Immacolata Greco, la mamma di Lenù, una delle due protagoniste de "L'amica geniale" (qui la nostra recensione). E allo stesso modo sembra ricalcare le sembianze di Antonietta, la mamma del piccolo Amerigo ne "Il treno dei bambini" di Viola Ardone (leggi la nostra recensione).
La gente del vicolo la chiamava 'a sberressa, cioè colei che comanda e non le manda a dire. Era irascibile, doveva avere sempre ragione su tutto. Si era indurita per adattarsi al quartiere e alla vita stessa, che con lei non era stata facile. Nunzia Capece aveva iniziato presto ad arare il proprio campo di battaglia. (p. 24)
Proprio come tante altre donne che popolano le città in quegli anni, donne che si fanno in quattro per tirare a campare la famiglia, per crescere i figli nel mezzo degli stenti e delle difficoltà quotidiane. Cosa ancor più vera per Napoli e il Sud. Donne indurite dai torti della vita, segnate da un destino di infelicità, rassegnate ma mai indomite, anzi per ciò stesso abituate a vivere a voce e a testa alta, senza paura, use a fare a pugni con la povertà. Donne che a volte si portano dentro lacerazioni dell'infanzia, violate da padri abbruttiti dall'alcol e dalla miseria, e da madri schiacciate che voltano il capo dall'altra parte per non farsi massacrare di botte.
In contesti come questi a volte il primo impulso delle madri è quello di provare a togliere dalla testa dei figli le illusioni, il desiderio di cambiare, le aspirazioni a una vita diversa, quasi come in un moto primordiale di difesa. E se di primo acchito noi lettori ce ne stupiamo, le detestiamo, ci sembrano "cattive", in realtà ciò che le muove è l'istinto, quasi a proteggere i figli da una sicura disillusione, da una sofferenza che diventa inevitabile se si rincorrono i sogni là dove sono destinati a rimanere tali. Così Immacolata guarda storto Lenù che si affatica sui libri, così Antonietta nasconde il violino di Amerigo che gli mette in testa strane idee. La realtà è il quartiere, il rione, il vicolo. Non c'è altra possibilità che indossare la corazza e combattere. Questa è la vita e prima si impara meglio si sopravvive. Ma i figli si ribellano, chi con lo studio indefesso, chi scappando su un treno che porta i bambini poveri al Nord, chi sognando un buon matrimonio. Come Maria. Facciamo la sua conoscenza, per la prima volta, vedendola affacciata alla balaustra del transatlantico Paolo Toscanelli che la porterà di là dall'oceano, in Brasile, dove è emigrato quel ragazzo di buona famiglia che l'ha fatta innamorare e che ha sposato per procura.
Di là dal mare ci sarà un'altra donna ad attenderla, Severina, la suocera. E tutti i suoi sogni naufragheranno in un mare di odio. Un'onda che travolgerà la sua vita e che, come un fiume carsico, sarà destinata a riemergere. Fino alla fine. Severina non accetterà mai Maria, lei aveva ben altre mire per questo suo unico figlio maschio, viziato e coccolato, che ha avuto l'ardire di ribellarsi e scegliere una sartina, una ragazza del popolino. Severina non perdonerà mai a Maria di avere schiacciato il pulsante dell'ascensore sociale e gliela farà pagare cara per tutta la vita.
Fortissime le figure femminili che emergono dalle pagine del romanzo: Maria, Nunzia, Severina. Ma anche Pupella, prostituta affettuosa e materna; Elena, sorella di Maria, così diversa e determinata; Rosa, la figlia rinnegata di Severina, cresciuta in collegio; Silvia, la figlia amata, che soccomberà al dolore più grande che una donna possa sopportare. E le bimbe di Maria, Livia, Flavia e Rosaria, l'ultima nata che assorbirà su di sé tutte le contraddizioni, le angosce e i tormenti familiari. Ma su tutte si staglia Severina, dura e affilata come un diamante, cattiva, perfida. Un ruolo disegnato con grande forza.
Il pregio del romanzo sta tutto nella contrapposizione dei personaggi femminili, nel loro riempire le pagine con la forza del proprio carattere. Sono loro a forgiare la trama attraverso i dialoghi densi, che sono costruiti con un sapido saliscendi di livello: dalla lingua formale e pulita del ceto più elevato al dialetto del popolo, che dà colore e concretezza. Quel dialetto che fa rione, che basta sentirne una frase per essere risucchiati nei vicoli. Il dialetto che Maria conosce alla perfezione, ma nasconde dietro una parlata pulita, diversa da quella dei familiari. Ed è solo una delle sue tante "stranezze" che mandano in bestia la madre, convinta che dietro ci sia il desiderio di volersi allontanare dal proprio destino, di rifiutare il proprio posto nel mondo.
E a proposito di mondo, due sono le città del romanzo: Napoli e Rio de Janeiro, ma tanto la città campana respira nelle pagine, è preponderante, quasi prepotente, quanto la città brasiliana è evanescente, dipinta solo per cliché risultando quindi meno viva e meno credibile. La scrittrice riesce però a trasmettere concretamente quel grumo di sentimenti che attossica il cuore dell'emigrante e che si può riassumere in una parola, nostalgia, un concetto che dentro di sé ha troppe cose. Così il Brasile, che doveva essere la patria delle opportunità, diventa invece la terra del dolore, della disillusione, dell'odio, della fatica, del sudore, del rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. Il duro adattarsi a una terra straniera che, se pure dà di che vivere, non potrà mai scacciare il ricordo del mare di Napoli, salmastro come le lacrime.
"L'albero di mandarini" è un romanzo con il giusto passo narrativo, dai pesi ben calibrati, anche se, nell'armonia del racconto mi sarebbe piaciuto ritrovare, nella seconda parte, personaggi che un po' si perdono di vista, soprattutto Nunzia, la madre di Maria, troppo relegata a comprimaria davanti alla sfrontatezza di Severina.
Ma è soprattutto un romanzo che si legge d'un fiato e che regala figure che non lasciano indifferenti.
Sabrina Miglio
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