di Robert Capa
Contrasto, 2019
Traduzione di Piero Berengo Gardin
€ 24,90 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
«Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino» questo consiglio, che Capa era solito dare ai colleghi fotografi, ci fa comprendere la filosofia di vita di questo artista, che ha vissuto ed è morto pericolosamente. Nonostante il libro qui recensito sia corredato dalle splendidi immagini che Capa scattò come fotoreporter durante la Seconda Guerra Mondiale, nei fronti di Algeria e Sahara, nella Campagna d’Italia fino alle porte di Roma, nello sbarco in Normandia e durante la presa di Berlino, Leggermente fuori fuoco non è - e non voleva essere secondo le intenzioni del suo autore - un libro fotografico, ma un diario di guerra di Robert Capa, "con foto dell'autore". Questa via d'accesso al testo, se vogliamo inconsueta dato che Capa è un fotografo o forse "il" fotografo di guerra per antonomasia, tuttavia mi ha subito messo in ascolto della voce narrativa di una persona che solitamente usava la focalizzazione nel senso non letterale del termine. E la voce c'è: debordante, affabulatoria, seduttiva, ironica, se vogliamo anche non professionista, ma con la sicurezza di chi sa bene tenere in pugno i lettori.
«Non c'era più nessunissimo motivo per alzarsi la mattina» comincia così il diario di Robert Capa, datato estate 1942. «LA GUERRA IN EUROPA È FINITA. Davvero non c'è più nessunissimo motivo per alzarsi la mattina» finisce così il diario, nella primavera del 1945. Ciò che sta in mezzo, è chiaro, è l'unico motivo per cui Capa si alzava la mattina: gettarsi con il paracadute, giocare a carte e bere in trincea con i soldati, provare a non essere colpito da un cecchino mentre lo fotografa, saltare in aria su una granata insieme ad Ernst Hemingway, litigare con lui furiosamente per poi riappacificarsi al Ritz durante i festeggiamenti per la liberazione di Parigi, sedurre belle donne (tanto per dirne una spezzò il cuore ad Ingrid Bergman, reputando la sua professione pericolosa inconciliabile con la vita matrimoniale). Una vita ruggente, un atteggiamento istrionico già dal nome, che lui e l'amata Gerda Taro avevano inventato. Robert Capa, in realtà, era Endre Ernő Friedmann, «un tempo ungherese, adesso nulla di preciso» di presenta lui nella prima pagina di Leggermente fuori fuoco. Sì, nulla di preciso.
Se il titolo del libro nasce dal fatto che le celebri foto dello sbarco in Normandia furono parzialmente rovinate da un tecnico di laboratorio e che quindi appaiono leggermente fuori fuoco, tale definizione si adatta perfettamente anche alla vita di Capa, che ha vissuto come un soldato, senza essere un soldato.
Un fotoreporter di guerra beve sicuramente di più, ha più ragazze, è pagato meglio ed è più libero rispetto a un soldato. Ma a un certo punto del gioco, avere la libertà di decidere dove stare e quindi anche la possibilità di comportarsi da vigliacco, senza essere giustiziato per questo. è la sua tortura. La posta in gioco del corrispondente di guerra - la vita - è nelle sue mani, può puntarla su questo o quel cavallo, oppure rimettersela in tasca all'ultimo minuto. Sono un giocatore. Così decisi di unirmi alla Compagnia E nella prima ondata (pag. 172).
Robert Capa era un giocatore, non c'è alcun dubbio. Durante la guerra civile spagnola, perse la fidanzata, la fotografa Gerda Taro; tuttavia quella guerra, lo consacrò come fotografo con lo scatto del miliziano colpito a morte. Forse la foto di guerra più celebre al mondo. Nel 1954, durante la prima guerra di Indocina, pose i piedi su una mina e morì. Leggere il testo di Capa, nonostante la splendida leggerezza di questo testimone che conviveva con la morte quotidianamente, è non solo documentarsi sulla storia del secolo trascorso, ma riflettere sul valore della verità e sulla professione degli inviati. Nonostante il tono ilare che pervade la narrazione, in più punti Capa squarcia il velo sul dolore che gli entrava dentro le ossa e anche sui dubbi che assalgono una persona che ruba una scatto mentre un uomo nuore, mentre una madre piange un figlio.
In treno, tenendomi ben stretta la pellicola esposta, odiai me stesso e la mia professione. Foto come queste si addicevano di più a un impresario di pompe funebri e io non volevo essere uno di loro. Se dovevo partecipare a un funerale, giurai, l'avrei fatto insieme agli altri, in mezzo al corteo. La mattina seguente, dopo averci dormito su, mi sentii un po' meglio. Mentre mi radevo, mi fermai a riflettere sull'incompatibilità tra l'essere reporter e l'avere al tempio stesso un animo sensibile (pagg. 51/52).
Troppo impietoso con se stesso. La sensibilità c'è tutta nelle foto corredate al volume: vi sono tutte le sfumature delle emozioni: dall'orrore per il soldato americano appena centrato da un cecchino, con il sangue a terra, alla gioia incontenibile dei palermitani all'ingresso degli americani in città. Un altro suo amico, John Steinbeck, disse che «Capa sapeva che cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un'emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino». E questa emozione, questa empatia, riesce a trasferirla con le immagini, questo lo sapevamo, ma scopriamo che lo sa fare anche con le parole.