Le cronache dell'acero e del ciliegio Volume 1: la maschera di No di Camille Monceaux L'Ippocampo editore, 2021 pp. 416 CLICCA QUI PER COMPRARE IL VOLUME SU LA FELTRINELLI.IT |
Ciao Camille, benvenuta su Critica Letteraria e ancora complimenti per l’uscita in Italia del primo capitolo della tua tetralogia! Ti va di cominciare presentandoti ai lettori del nostro sito rivelando che cosa ti accomuna ai principali personaggi del tuo romanzo? Quanto c’è (o non c’è!), in te, di Ichiro, Daichi, Shin e Hiinahime?
Ciao e grazie mille per avermi accolta! Sono veramente emozionata di vedere il mio libro tradotto in Italiano. È come un sogno diventato realtà. Quando ho scritto il primo volume non avrei mai potuto immaginare di vederlo tradotto in un’altra lingua. Per introdurmi usando poche parole direi che sono una nomade nel cuore, profondamente innamorata della natura selvaggia e della letteratura – sì, per quel che mi riguarda vanno a braccetto! Non riesco a immaginare condizioni migliori per scrivere se non circondata dal verde. Il potere intrinseco delle parole mi ha sempre affascinata. Da bambina guardavo agli scrittori come ad una sorta di maghi e credo che un po’ di questa idea sia presente nel personaggio di Daichi, il poeta. Ma il personaggio che mi assomiglia di più è sicuramente Ichiro. Credo di averlo plasmato sui lati del mio carattere che mostro meno, specialmente in questa grande sfida che è il mondo degli adulti. È praticamente un introverso, proprio come me. Shin è l’amico che invece vorrei essere, e Hiinahime è molto più coraggiosa di quanto sarò mai.
Una giovane donna francese, nata e cresciuta nella regione bordolese tra boschi e vigneti, che si innamora del Giappone e parte per conoscerlo meglio e visitarlo in lungo e in largo: già queste sembrano le premesse per una sceneggiatura! Ci racconti come è nata questa tua passione per l’Estremo Oriente e che cosa ha significato per te questo viaggio di esplorazione in solitaria?
È sempre difficile per me riuscire a spiegare in maniera razionale come mi sono innamorata del Giappone. In qualche modo è semplicemente accaduto. Ma se tento di rimettere insieme i pezzi credo che tutto sia nato con i film di Miyazaki Hayao che ho scoperto alle superiori. Poi un amico mi ha iniziata agli anime e ai manga.
Quando mi sono trasferita a Parigi per motivi di studio ho scoperto il quartiere Saint Anne, il posto in città dove si trovano i ristorante di ramen e izakaya, i supermercati asiatici, i negozi che vendono gadget giapponesi… Per una ragazza cresciuta in campagna e che prova il sushi per la prima volta a diciannove anni si è trattata di una rivelazione. Ma il mio interesse per il Giappone si è trasformato in una vera e propria passione quando ho iniziato a leggere letteratura Giapponese, in Francese ovviamente. Ho letto tutti i volumi di Murakami Haruki che era al suo picco all’epoca, prima di immergermi in autori più specifici come Inoue Yasushi, Kawabata Yasunari, Abe Kobo, Okakura Kakuzo. Mi sono particolarmente affezionata alle autrici giapponesi, con i romanzi ambigui di Ogawa Yoko e i lavori melanconici di Kawakami Hiromi, i diari pre-medievali di Izumi Shikibu e, infine, il grande classico Genji Monogatari. La poesia giapponese mi è entrata dentro; tutto quello che volevo fare era poterla leggere in lingua originale.
Dopo aver preso lezioni con un insegnante giapponese ho deciso di trasferirmici finiti gli studi. Ho pianificato con impazienza il mio anno lì. Ho avuto paura solo quando, in aeroporto, stavo per salire sull’aereo. Ho pensato: “Cosa sto facendo? Mi sto trasferendo in un paese dove non sono mai stata e non ho nessun amico!”. Fortunatamente non ero veramente sola perché la persona che ora è mio marito, Maxime, è venuto con me. Quell’anno in Giappone è stato incredibile. Abbiamo passato dei periodi difficili, ovviamente, ma ciò che provavo svegliandomi ogni mattina era: “Sono in Giappone. Sto vivendo il mio sogno”. In un certo senso il significato del viaggio per me si riassume in questo: fare il salto.
Quando si scrive di una cultura che non è quella di nascita il pericolo di una prosa “esotizzante” è sempre in agguato. La tua tetralogia è ambientata nel Giappone del XVII secolo, una scelta originale che però fa i conti con uno dei contesti più soggetti a cliché nell’immaginario occidentale. Ecco: se c’è una caratteristica che ho apprezzato nella tua prosa è proprio la sua misura, il fatto che non ci sia mai nulla di bozzettistico o ammiccante, nessuna concessione al quadretto di maniera. Hai avuto di queste preoccupazioni legate alle insidie degli stereotipi mentre lavoravi al romanzo?
Sì, decisamente. Tentare di rimanere quanto il più lontano possibile dagli stereotipi e cliches era una delle mie sfide principali durante la stesura del romanzo. Ne ero particolarmente consapevole visto che la mia discussione per l’ultimo anno del mio master riguardava proprio la storia della traduzione francese della letteratura giapponese. Leggo molto sull’argomento dell’esoticismo e uno di loro spiega per esempio come per molto tempo la parola piccolo (“petit” in francese) era spesso usata per descrivere il Giappone; piccole case, piccole mani, piccole tazze da tè e piccoli giardini… Questo modo di descrivere ispirava un senso di tenerezza, vulnerabilità e fragilità, ponendo l’autore occidentale su un piedistallo di potere e forza. O, per dirla in modo differente, di superiorità.
Per questo ho deciso da subito di scrivere un romanzo storico. Mi sarei potuta liberare dalla veridicità storica e scegliere un’ambientazione completamente derivata dal Giappone senza che fosse assolutamente Giappone, un Giappone che non dice il suo nome. Ma amo troppo la storia. Volevo scrivere delle arti giapponesi come il noh e il kabuki, volevo citare poeti giapponesi e le tradizioni in tutta la loro pienezza. Ho una laurea in storia ma non sono una storica, men che meno una specialista di storia giapponese. Quindi probabilmente ci saranno delle inesattezze nel romanzo sotto questo punto di vista.
Credo, comunque, che sia ok. Tutto quello che volevo fare, più di qualsiasi altra cosa, era provare a immaginare come vivessero i giapponesi dell’epoca. Cosa mangiavano? Come pensavano? Cosa sapevano del mondo? In questo senso i miei personaggi non sono più distanti da me rispetto ai francesi dello stesso periodo.
Riguardo agli stereotipi credo che vivere in Giappone abbia aiutato molto in questo senso grazie ai molti musei, castelli e mostre d’arte che ho potuto visitare. Riguardo invece alla scrittura in senso stretto mio marito ha aiutato molto. Essendo per metà giapponese lui era più che consapevole degli stereotipi con i quali la comunità asiatica e giapponese si deve misurare. Mi ha aiutata a evitare molti di quei cliches. Questo non significa che la mia scrittura ne sia completamente libera ma so che mi impegno sempre per migliorare e imparare.
Una delle peculiarità di Ichiro è che si tratta di un personaggio alla ricerca della propria origine, ma più lui cerca di scoprire come stiano le cose sul suo conto e più queste si complicano; per non parlare del fatto che in più occasioni è costretto dalle circostanze a fingere di essere chi non è, a presentarsi con nomi falsi, a nascondere il suo passato. Non è che un adolescente, eppure è chiamato a confrontarsi fin da subito con una delle questioni cruciali per ogni individuo: quella dell’identità. Ci dici qualcosa su questo tema così importante?
La ricerca della propria identità non è probabilmente l’argomento più originale ma mi è venuto in mente subito, forse perché io stessa sono molto intrigata dal concetto di identità. Per un lungo periodo ho vissuto senza dire alle persone cosa davvero sentivo o pensavo. Ero, e in qualche modo ancora sono, una “people pleaser” (persona accondiscendente). In un certo senso la mia passione per il Giappone mi ha aiutata a rivelarmi a me stessa. Era la prima volta che non avevo un hobby che mi era stato imposto dai miei genitori, insegnanti o dalla società. Mi ha fatta diventare una specie di stramba perché nessuno a me vicino se ne interessava, ma mi ha spinta ad andare alla ricerca di chi volevo essere.
Nel romanzo Ichiro è cresciuto per diventare un samurai. Dopo, arrivato a Edo, scopre che le persone non possono semplicemente decidere chi vogliono diventare. Specialmente durante il periodo in cui al potere vi era Tokugawa Ieyasu la società era fortemente divisa in caste.
Non potevi facilmente cambiare da una casta ad un’altra. Dopo decadi di rivolte politiche e guerra civile Tokugawa Ieyasu voleva riunificare il paese. Per farlo le persone dovevano rimanere nella stessa condizione sociale in cui erano nate. Ichiro lo impara a sue spese. Nel primo volume è spesso combattuto fra ciò che la società gli dice di essere (prima un hinin, praticamente un rifiuto umano, poi un lavoratore di ultima classe) e l’idea di sé con cui è stato cresciuto, quella di essere un guerriero. Nessuna di queste opzioni gli permette davvero di esplorare chi vuole diventare.
Quando Ichiro conosce Daichi, poeta e sceneggiatore, e quando poi entra in contatto con l’ambiente del teatro, la sua vita conosce una svolta importante: oltre a trovare un amico in una città come Edo in cui tutti sono tra loro rivali (e non a caso lo conosce nella cella di una prigione), si sente finalmente parte di un progetto esaltante e affascinante (e inizialmente anche intrigante, perché clandestino), ed è come se l’arte, in qualche modo, lo salvasse dalla routine che stava conducendo al solo scopo di sopravvivere. Anche tu attribuisci all’arte questo potere? Credi che la letteratura, il cinema, la musica e le arti visive possano davvero e più di altre cose stravolgere in modo così esclusivo e determinante l’anima di chi le sperimenta?
Assolutamente! Nel romanzo incontrare Daichi e il mondo del kabuki è l’unico modo per Ichiro di ricongiungersi con la sua educazione, ma il maestro probabilmente era un po’ più severo e conservatore! Grazie a Daichi, Shin e le attrici Ichiro capisce il potere performativo dell’arte. Il teatro non è altro che parole in movimento; parole che possono dare forma alla realtà, darle diversi colori. Nella codificata e crudele città di Edo solo sul palco del teatro kabuki Ichiro può essere un samurai. L’arte può essere molto politicizzata, come lo era la mera presenza di donne sul palco in quell’epoca. Ma l’arte può anche aiutare a fuggire dalla realtà, può essere una finestra su un sogno. L’arte ha questa connotazione per Hiinahime, rinchiusa in un palazzo senza conoscenza del mondo esterno.
È buffo perché ho dato molta importanza all’arte nel romanzo senza rendermene conto. Solo dopo, quando me lo hanno fatto notare i lettori, che ho visto come l’arte era il punto di connessione fra Ichiro e Daichi, Shin, poi Hiinahime. Non mi sorprende visto che la letteratura, la musica e il cinema mi hanno aiutata molto da giovane in un momento in cui sentivo di non appartenere a nulla. Miyazaki, specialmente con Principessa Mononoke, La città incantata e Nausicaa della valle del vento hanno avuto un grosso impatto su di me. Mi hanno dato speranza, mi hanno fatto capire che la vita poteva essere qualcos’altro, diversa e bella.
L’incontro di Ichiro con Hiinahime è un altro momento chiave del romanzo, e il rapporto che si crea tra i due personaggi è al crocevia tra rispecchiamento reciproco e inversione delle parti. Anche lei è all’oscuro di tante cose che la riguardano, vive segregata nei suoi appartamenti senza contatti con il mondo esterno, e porta da sempre una maschera sul viso che impedisce a lei e agli altri di vedere il suo vero volto. Anche lei è innamorata del teatro, anche se nella forma tradizionale del No, e questa passione, anche se coltivata in modo solitario, la tiene in vita. Oltre agli elementi in comune, però, ci sono anche ragioni di contrasto. Forse è anche per questo che, per quanto pericolosi siano i loro incontri, i due non intendono rinunciarvi: per la prima volta sia lui che lei hanno a che fare con qualcuno con cui essere finalmente se stessi, nel bene e nel male. In un mondo narcisista come quello attuale quanto bisogno c’è di fare incontri simili e di coltivare rapporti sinceri in cui non ci sia posto per il compiacimento di sé?
Direi che è essenziale. Per lo meno nella mia visione dell’amicizia! Io considero le amicizie come fossero storie d’amore. Ai miei occhi, un’amicizia in cui puoi essere te stesso senza bugie, rivalità, gelosie, un’amicizia basata sul supporto e accettazione del cambiamento è una delle cose più straordinarie al mondo, forse anche la più rara! Ho letto di recente, dall’autrice francese Lola Lafon, che l’amicizia è una delle cose più sovversive che possa esistere: non produce nulla. Niente figli o soldi ne usciranno fuori. Agli occhi della nostra società capitalista, dove ogni cosa deve avere uno scopo e utilità, l’amicizia non ha senso, dunque i legami forti sono un modo di definire il Sistema. Non potrei essere più d’accordo! Questo non significa che bisognerebbe avere quanti più amici possibile. Si può essere circondati da centinaia di “amici” e comunque sentirsi più soli che in una grotta. Un vero amico è più che sufficiente, direi. Sapere che da qualche parte nel mondo esiste qualcuno che sa tutto di te, il brutto e il bello, lo accetta e ti ama per questo. Perché ai miei occhi le storie d’amore iniziano con l’amicizia.
Si può dire che Ichiro sia un personaggio profondamente solo: prima l’isolamento forzato in mezzo alla natura durante l’infanzia, poi quello cercato tra i quartieri cittadini durante la prima adolescenza. Senza affetti e senza amici non è che un individuo tra tanti, un perfetto nessuno, e oscilla tra il senso di disperazione e quello (paradossale) di protezione generati da questa realtà; una dinamica complessa, drammatica, ma in cui ogni lettore in qualche modo si ritrova. Qual è il tuo rapporto con la solitudine?
La crisi causata dal Covid ha cambiato molte cose e le persone, giovani e anziane, si ritrovano ad avere a che fare con un senso di solitudine mai sperimentato prima. È un sentimento che vorrei nessuno dovesse mai sperimentare. Sono abbastanza fortunate oggi da essere in una relazione che mi protegge da tutto questo, ma non è sempre stato questo il caso.
Ero piuttosto solitaria da bambina, vittima di bullismo occasionale sia alle elementari che alle medie. L’unico modo per sfuggirvi era leggere. Leggevo tutto il tempo e questo ha creato un circolo vizioso perché più leggevo più mi allontanavo dagli altri, più difficile diventava farsi degli amici. Per molto tempo ho sofferto la mia solitudine. Volevo solo sentirmi normale, accettata, eppure mi sentivo così diversa dagli altri, persino dalla mia famiglia. Piano piano ho scoperto che essere sola e sentirmi sola erano due cose diverse. Sentirmi sola era devastante. Essere sola mi dava forza. L’ho realizzato quando mi sono trasferita nel mio primo appartamento. Lì, per la prima volta, ero davvero sola. Che significava anche essere davvero libera. Ma c’era sempre la mia famiglia da cui tornare in caso di bisogno. La solitudine di Ichiro, d’altro canto, è particolarmente dura da vivere perché ad un certo punto non ha più nessuno a cui tornare. È completamente e indicibilmente solo, e la cosa arriva quasi a spezzarlo. Solo l’incontro con Daichi lo salva.
Per esistere e salvarsi Ichiro ha capito che deve muoversi, perché stare fermo equivarrebbe a morire (anche letteralmente di fame e di sete): dunque, in qualche modo, è costretto a diventare una specie di nomade, un pellegrino perenne, un viandante inquieto. Quanto conta, anche per te personalmente, la dimensione del viaggio, anche e soprattutto adesso che stiamo attraversando un momento storico in cui proprio la stasi e l’immobilismo coatto ci hanno messi a dura prova?
Questa domanda è particolarmente accurata visto che io desidero nulla di più se non una vita da nomade! Mi sento completamente me stessa solo in strada, scrivendo. Quando arrivi in un luogo in cui nessuno ti conosce puoi decider chi vuoi essere! Non intendo dire di diventare bugiardi e inventarsi, ovviamente. Parlo della possibilità di liberarsi delle etichette. Che vengano dalla famiglia, amici o insegnanti ad un certo punto della nostra vita veniamo sempre etichettati. Inquadriamo noi stessi e gli altri perché è più semplice; altrimenti nulla avrebbe senso. Credo nel potere di dare un nome alle cose. Ma non mi piace quando gli altri si fanno un’idea di chi tu sia senza darti la possibilità di cambiarla. Quando viaggi e incontri persone nuove ti interfacci con lingue, tradizioni e modi di pensare diversi e hai due scelte: considerare che le cose, per natura, siano fatte in un certo modo, o accettare la diversità della vita!
Nel 2020 io e mio marito avevamo pianificato di passare un anno in Australia con un visto lavorativo. Dopo volevamo passare due o tre mesi viaggiando per il Giappone per delle ricerche per il mio secondo libro. Ovviamente non abbiamo potuto fare niente di tutto ciò. È stata una vera sfida per me visto che la mia scrittura si ciba dei miei viaggi ma alla fine abbiamo deciso di comprare un van che stiamo attualmente convertendo nella speranza di poter viaggiare attraverso l’Europa, speriamo di arrivare in Italia quanto prima!
Il Giappone che descrivi è tutto fuorché un Eden da cartolina: è violento, gerarchico, spietato, patriarcale, maschilista, chiuso in se stesso e resistente al cambiamento. Si può dire che viva di contrapposizioni e contraddizioni profonde, e anche la rivalità tra teatro No e teatro Kabuki ne fa parte. Quella di tutti i personaggi – di Ichiro specialmente, ma anche di quelli minori – è sempre una lotta per la sopravvivenza in un contesto naturalmente ostile, in cui bisogna avere una buona dose di fortuna e di cinismo per arrangiarsi alla meglio. Sono le premesse perfette per un romanzo di formazione, ma al netto delle dovute distinzioni da fare tra duecento anni fa e oggi c’è tanto di contemporaneo, e credo che questo renda molto attuale il tuo lavoro. Sei d’accordo o, al contrario, ti interessava proprio mostrare le differenze rispetto al passato?
Un po’ entrambe le cose. Ho voluto utilizzare le differenze fra oggi e il passato per mostrare che alcune abitudini che per noi sono completamente normali e naturali sono in realtà solo costrutti culturali. Per farlo dovevo tenermi alla larga dai miei punti di riferimento occidentali.
Per esempio la nudità non era considerata allo stesso modo nel Giappone del 17esimo secolo visto che non si trattava di un paese cattolico come per esempio la Francia o l’Italia. Moltissimi lavoratori giapponesi indossavano pochissima biancheria intima, andando in giro semi nudi per tutto il giorno. Anche i criteri di bellezza erano molto diversi dai nostri. Ogni donna sposata doveva rasarsi le sopracciglia e ridipingerle un po’ più in alto sulla fronte e colorare anche i denti con un miscuglio nero. Denti neri e sopracciglia rasate: queste due routine erano considerate il massimo della bellezza per una donna.
Un’altra cosa che ho dovuto tenere a mente è il fatto che il Giappone feudale e quello contemporaneo sono molto diversi! Nel 17esimo secolo non riusciti a trovare carne, latte di mucca, pomodori… piatti come il katsudon, il gyudon o il sukiyaki, che sono molto popolari nel paese ora, non esistevano all’epoca. Lo zucchero era un ingrediente raro, dunque i dolci non erano qualcosa che si consumava tutti i giorni a meno di non far parte della nobiltà. Devo dire di essermi divertita molto facendo ricerche sul cibo.
A parte queste specifiche volevo solo mettere in luce il fatto che altre cose invece non sono cambiate come per esempio l’oppressione delle donne da parte degli uomini, dei poveri da parte dei ricchi, dei deboli da parte dei potenti. Ma spero che Ichiro non diventerà un cinico!
La maschera del No va poco oltre le 400 pagine, e una tetralogia è decisamente un impegno importante con il proprio pubblico. Anche tra le tue fonti di ispirazione c’è stata qualche saga o qualche narrazione lunga che hai particolarmente ammirato? E ci dici qualcosa dei tuoi punti di riferimento letterari, degli autori, delle autrici e dei romanzi che ami maggiormente?
Ho sempre amato il fantasy e le lunghe saghe come Il signore degli anelli, Eragon o qualsiasi cosa scritta da Robin Hobb che adoro. Sono anche cresciuta con la saga di Harry Potter, ho aspettato la mia lettera per Hogwarts all’età di undici anni, quindi direi che non è stata una sorpresa il fatto che mi sia sentita attratta dalle narrazioni quando ho iniziato a scrivere. D’altro canto una delle mie autrici preferite è Marguerite Duras, e negli ultimi anni mi sono innamorata dei lavori di Ogawa Ito e Maya Angelou. Ho speso tutta la mia giovinezza a leggere principalmente parole scritte da uomini, ora voglio concentrarmi sulle autrici.
Ichiro non si separa mai dal suo ciondolo a forma di mezza foglia d’acero: un oggetto prezioso, un simbolo di appartenenza, un amuleto identitario che lo accompagna dalla nascita e di cui ha bisogno di scoprire l’origine e il significato. Si tratta “solo” un oggetto, ma la più vaga possibilità della sua perdita manda il protagonista nel panico totale. Hai anche tu qualcosa di simile da cui non ti separi mai?
Non posseggo nessun gioiello prezioso, sarebbe troppo pericoloso da portare in viaggio, ad eccezione di un anello regalatomi da mia madre quando avevo dieci anni, il mio anello di fidanzamento e la mia fede. All’interno di quest’ultima vi è un’incisione in elfico da Il signore degli anelli. Quegli anelli mi fanno sentire al sicuro. Mi prendo cura di loro e non li indosso mai quando faccio sport o sto lavorando sul van. Tento di essere il più minimalista possibile e distaccarmi dai possedimenti materiali, ma impazzirei di tristezza se dovessi perdere anche solo uno di quegli anelli!
Ancora un’ultima domanda prima di ringraziarti per questa intervista: ti va di darci qualche anticipazione sul secondo capitolo di Le cronache dell’acero e del ciliegio?
I lettori viaggeranno con Ichiro e scopriranno una nuova città giapponese! Ci sarà più azione e, dopo i fiocchi di neve del primo volume, i bordi delle pagine del secondo saranno adornate da fiori di ciliegio. Sono innamorata della copertina del nuovo libro e non vedo l’ora che tutti possano vederla!
Intervista a cura di Cecilia Mariani
Per la foto di Camille Monceaux: ©Ed.Gallimard-Chloé Vollmer-Lo (per concessione della casa editrice)
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