Surrealismo. L’arte che ha rivoluzionato l’arte
illustrazioni di Giuseppe Latanza
testi di Giovanni Marchese
Centauria, 2021
pp. 112
€ 19,90 (cartaceo)
Molto più del Cubismo, del Futurismo, del Fauvismo, dell’Espressionismo e del Dadaismo: se esiste un’avanguardia storica che è stata capace di esercitare la sua influenza ben oltre la sua parabola primonovecentesca, non c’è dubbio che quella surrealista detenga una serie di primati (per intensità, pluralità, longevità) non così facilmente eguagliabili dai movimenti sodali. Una vitalità inesauribile, la sua, con influenze, tracce, echi e impronte percepibili a decenni di distanza, in ogni ambito dell’espressione artistica e come ovvia conseguenza della molteplicità degli sbocchi creativi che la caratterizzarono fin dalle origini e poi nelle diverse fasi evolutive (dalla letteratura alla fotografia, dalla pittura al cinema, dalla scultura al teatro). Nulla di strano, allora, che anche in un ipotetico e lontanissimo domani come quello vagheggiato da Giovanni Marchese e illustrato da Giuseppe Latanza, il Padiglione Didattico multimediale dedicato alle vicissitudini di André Breton & Co. sia tra i più suggestivi e frequentati. Sì, perché in un futuro senza biblioteche e senza musei (dunque senza libri e senza opere), con la memoria affidata a computer quantistici e androidi progettati e programmati per fungere da perfetti sosia degli artisti del passato, i parossismi informatici saranno l’unico anello di congiunzione tra i tempi ultraonirici che furono e quelli ipertecnologici in corso. E lo saranno con successo, forti del fascino imperituro di una temperie incantevole e fatale come una dama sconosciuta:
«molti ritengono che le persone misteriose siano le sole davvero interessanti», ricorderà difatti al lettore, non a caso, il replicante di Breton, «e il Surrealismo è come una bella donna, che certi uomini amano alla follia prima di rendersi conto di essere perduti per sempre. E allora proveranno ad allontanarsi da lei. Finché un giorno cominceranno a vagheggiarla, e solo allora capiranno che la vita è triste senza di lei. Vuota. Dimenticheranno incubi e angosce, e la pregheranno di tornare con loro. Perché gli incubi sono spaventosi, ma una vita senza sogni è ancora più tremenda!».
Marchese e Latanza non avrebbero potuto scegliere un artificio retorico più paradossale per omaggiare l’avanguardia che tra le virtù della “regressione” (psichica) e quelle del “progresso” (tecnico) ebbe sempre a preferire le prime. Eppure l’efficacia del loro lavoro a quattro mani appena pubblicato da Centauria e dedicato “all’arte che ha rivoluzionato l’arte” sta tutta nell’ammissione di questa certezza di fondo: per quanto le macchine possano evolversi e svilupparsi, l’animo umano resterà per sua stessa ontologia un’entità eternamente insondabile, e dunque non quantificabile/misurabile/riproducibile/programmabile a piacimento. E questo sebbene la tentazione di manipolare gli individui “dall’alto e dall’interno” venga descritta come sempre latente, un desiderio di controllo che potrebbe condurre i tecnici dei secoli a venire a saggiare strategie di comando attraverso esperimenti e simulazioni “a tradimento”, talmente coinvolgenti da far perdere la distinzione tra illusione e realtà. Magari, perché no, proprio durante una visita nell’apposito Padiglione Didattico delle Belle Arti, come quella che si trovano a fare Ginevra, Osvaldo e Rumiko, tre amici alle prese (chi più, chi meno) con un corso di recupero scolastico nella Sezione Movimento Surrealista; un dovere che per loro si trasformerà a poco a poco in piacere, oltre che in un’esperienza multisensoriale efficace come un rito di passaggio.
Giuseppe Latanza avrebbe avuto, per molti versi, buon gioco a tradurre visivamente il viaggio virtuale dei tre studenti, magari facendosi prendere la mano da esagerazioni e citazioni fini a se stesse: esuberante e rigoglioso come è stato, il Surrealismo porta sempre con sé il rischio di strafare e di perdere la misura ogni qual volta ci si trovi a farne un racconto per immagini. Ma le cose vanno diversamente, e anzi proprio l’illustratore confessa di avere dato vita ai suoi disegni «col perenne punto interrogativo sulla testa» (p. 107). Il che, se da una parte conferma l’inafferrabilità del movimento e l’adeguamento a una sceneggiatura volutamente “in stile” come quella ideata da Giovanni Marchese, dall’altra rivela anche la consapevolezza di confrontarsi con un tema che per sua natura implica e pretende sempre molteplici interpretazioni e livelli di lettura. E difatti, come in un sistema di scatole cinesi, i piani narrativi si incastrano l’uno nell’altro, con i computer quantistici e gli androidi dei vari Ernst, Eluard, Crevel, Dalì, Buñuel, Ray, Magritte e soprattutto Breton a tenere le fila del discorso e a raccordare un futuro utopico/distopico con un passato incentrato sull’inconscio e persuaso del potere della realtà onirica. Così, mentre il papà/Papa André può ben pontificare tra le pareti di una stanza inequivocabilmente lynchiana, mentre Ernst svela il dietro le quinte della confezione dei suoi collage, mentre Dalì e Magritte sostano e gironzolano all’interno dei loro stessi dipinti, mentre porte, portoni e soglie non meglio identificate si aprono e si chiudono in continuazione e un’enorme stemma con falce e martello passa da piedistallo a rudere, ecco che i tre amici (tra una festa, una nuotata, una sbronza e un tragitto in barca) si muovono di volta in volta all’interno di scenari che replicano studi d’artista, riproducono luoghi di ritrovo parigini entrati nel mito, rielaborano opere celebri o traspongono in immagini i territori inesplorati della psiche. E tuttavia, per quanto perturbante possa essere la lezione, il filo del discorso e gli snodi dell’avventura surrealista si seguono con piacere, e questo grazie all’andamento sostanzialmente cronologico delle tavole – non bisogna dimenticare che nella finzione scenica si tratta pur sempre di un corso di recupero per esami di riparazione – e alla presenza costante di didascalie e dialoghi che ripercorrono le principali tappe dal 1924 in avanti.
Se le otto precedenti uscite della collana Centauria dedicata agli artisti del secolo scorso avevano un taglio ad personam che metteva in primo piano il solo personaggio biografato, a distinguere questa ultima uscita c’è proprio il tentativo ambizioso di presentare le anime di un movimento variegato, e che alla lunga fece i conti proprio con le divergenze e i rapporti di forza tra i suoi singoli componenti (oltre che con le implicazioni e compromissioni politiche). Così, pur senza negare l’evidente e necessario risalto dato da Marchese e Latanza alla figura di André Breton, il loro Surrealismo riesce a offrire una visione d’insieme e a restituire un’atmosfera, per così dire, “assortita” sull’ultima grande avanguardia del primo Novecento. D’altra parte, il presupposto di non esaustività, e dunque l’invito al lettore affinché approfondisca ulteriormente l’argomento (magari con l’aiuto della bibliografia citata in coda, e in più affrontando anche la componente femminile di un movimento in cui le donne non furono esclusivamente muse), è già implicito nell’artificio retorico su cui si basa la stessa sceneggiatura: il futuro di eccessi virtuali vagheggiato dall’autore e dall’illustratore è, in fin dei conti, solo una delle ipotesi possibili, e per quanto l’arte surrealista si candidi a essere un perfetto campo per sperimentazioni didattiche e simulazioni immersive, le fonti attualmente a disposizione per ulteriori ricerche da condurre con metodi “tradizionali” non mancano di certo. Per il resto basterà tenere i sensi accesi e dirsi (giocoforza) d’accordo con il padre fondatore: «l’influenza dell’arte surrealista continua a esercitarsi fino ai giorni nostri», afferma Breton nelle ultimissime tavole, in un cortocircuito temporale che lo rende contemporaneo all’epilogo storico del movimento e al racconto differito del suo successo postumo. Mentre il congedo finale, affidato al dinamismo visivo di un turbine livido che richiama un buco nero, una tempesta di fulmini e un maremoto, è condensato verbalmente in una dedica in tutto simile a una dichiarazione d’amour fou: «cara immaginazione – è la citazione d’artista – «quello che più amo in te è che non perdoni». Nessun riassunto e nessun explicit migliore di questo per suggerire i tormenti necessari a qualsiasi processo creativo, specialmente quando tra i suoi scopi e presupposti ci sia (stata) proprio la coincidenza con l’esistenza in sé.
Cecilia Mariani