Chiedi ai sogni di
fare rumore
di Alessandro Q. Ferrari
Mondadori, 2021
pp. 239
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Sono passati solo pochi mesi
dalla “Notte di Aida”, quella in cui tutto è cambiato e Arianna è morta, poco prima di compiere sedici anni. Non morta sul
serio: continua a parlare, camminare, pensare. Forse anzi pensa ancora di più,
pensa troppo. Ma non prova più niente,
non esce di casa, è tormentata da orribili incubi. Ignora quella voce che le
parla dentro, la voce sorridente e
ingenua di Arianna Viva, che cerca di richiamarla al suo presente. Lei sa,
infatti, che quella ragazza non esiste più nella realtà, sa di avere ormai “il cuore interrotto” (p. 15), e non ne
può più “di continuare a fingere di
essere viva” (p. 20). Per questo scrive a Cosmo, che sta a Milano ed è
l’unico a cui può provare a dire tutta la verità, sperando che la comprenda,
non come il papà, che finge di non sentire. Gli scrive che deve raggiungerlo,
per mettere dello spazio tra sé e quello
che è successo, tra sé e la cameretta di quando era viva, che adesso non le
appartiene più se non per il pavimento, l’unico spazio in cui si ritrova perché
ci può restare sdraiata “a non esistere”
(p. 27). È così che la narratrice decide di accettare un’offerta di lavoro come
tata presso una famiglia milanese benestante, mentendo sull’età e senza un
progetto preciso che non sia quello di sfuggire ai brutti sogni, a quelle
figure spettrali che la perseguitano (la donna con l’impermeabile giallo, la
foca-coniglio che sanguina dal ventre e che lei non può salvare), infrangendo
la sua ricerca di apatia.E se i morti non sentono niente, a innescare il ritorno alla vita di
Arianna è proprio un’emozione da tempo messa a tacere: la curiosità, quella che appena arrivata nella nuova città la muove
verso Béla, un rider che le ha rubato la bicicletta e va in giro a fare le
consegne con lo zaino completamente vuoto. Béla parla con la sincerità delle
sue mani, guarda Milano con gli occhi della meraviglia, porta qualcosa di più
prezioso delle pizze. E poi ci sono i due piccoli che le sono affidati, Lily e
Michele, che le si attaccano forzando i confini arbitrari che lei invano prova
a porre. E Manar, fuggita dalla sua Siria, che riesce a vedere oltre la sua ostentata
indifferenza e che la smaschera, cioè letteralmente la costringe a calare la
maschera e a guardarsi attraverso i suoi occhi come in uno specchio.
È difficile per la
narratrice mantenersi imperturbabile, anche perché dentro di lei Arianna Viva si dibatte, pone domande scomode, la fa
ridere e piangere quando meno se lo aspetta, e questo Arianna Morta non
riesce a tollerarlo. E mentre Milano si dispiega in angoli magici, straordinari,
che Béla le svela e illumina con la parola, Arianna inizia a sentire meno il
freddo che la congela a partire da quella notte di dicembre, a spogliarsi poco
alla volta dei suoi strati protettivi, a provare
di nuovo un intenso, ribelle, desiderio di amore e di vita:
Sono rimasta lì fino al tramonto. Ho visto i treni passare a pochi metri da noi, avevo i brividi lungo la pelle, i brividi belli. E un desiderio aggressivo, che mi spingeva sempre più verso di lui, che mi urlava di vivere. (p. 120)
E poco contano ormai le resistenze autoimposte, perché “ogni tanto bisogna disobbedire alla propria morte” (p. 132); perché
anche se Arianna pensa di non avere il
diritto di essere felice, il sentimento le si insinua in profondità, scuote
la sua indifferenza, la smuove verso le ingiustizie sociali, la fa correre e
lottare, la spinge ad aprire gli occhi su ciò che le sta intorno. I ruoli poco
alla volta si invertono, ed è Arianna Morta che si trova a parlare da dentro, e
in alcuni casi blocca, in altri può diventare inaspettata alleata, nel suo
tentativo di proteggerla, di metterla in guardia. Arianna, che conosce la morte, e il limite che non può e non deve
essere oltrepassato, si trova nelle condizioni di dover salvare le persone a
cui vuole bene, per poter poi essere salvata a sua volta. Questo comporta
dei rischi, perché quando si è vivi non
si può più far finta di niente.
Bisogna allora ammettere la possibilità di tornare indietro, alla Notte di Aida, di guardarla in faccia per fare i conti con quanto è successo e trovare, in qualche modo, la forza di perdonare se stessi. Farlo però non è semplice. È per questo che l’ultima parte del romanzo è così dura che non si può dire. Ha luogo, tra le pagine, una lotta straziante e senza esclusione di colpi, in cui la vita e la morte si scontrano, si contendono la protagonista. E a questa lotta siamo chiamati a partecipare completamente, perché la prosa di Alessandro Q. Ferrari non fa mai sconti. E Arianna ci diventa amica, figlia, sorella. Ogni riga ci strazia e vorremmo prenderle la mano come faceva Béla per ricordarle che c’è un’alternativa. Che le voci non devono essere messe a tacere per forza. Che invece che provare a zittirli, bisogna dare nuova forma ai sogni. Che la paura va bene, ma è necessario guardarsi dalla paralisi, da quei sentimenti che congelano l’esistenza e la fanno sembrare buia e senza via di scampo, come un vicolo cieco.
Non sono solo le storie imprevedibili, mai scontate, a fare la forza dei romanzi di Ferrari, a renderli quei libri che attendi e non vedi l’ora di leggere, anche se ormai non sei più adolescente da un pezzo. È, soprattutto, la sensibilità profonda dell’autore, quella capacità di cogliere un istante, o un sentimento, in poche parole che sono sempre quelle giuste. L’impressione che si prova a ogni pagina, di fronte a ogni personaggio, è che lui si ricordi esattamente come ci si sente a essere giovani e sperduti, privi di punti di riferimento, ma in ricerca. Di cosa voglia dire avere tante anime in sé che a ogni momento si scontrano e ti tirano in direzioni opposte. E di quanto siano importanti gli incontri che salvano. A questo si aggiunge un’abilità inconsueta nel descrivere i personaggi femminili, che sono sempre la luce interiore che fa risplendere le vicende narrate. Perché Arianna, come prima Sara in Devo essere brava (trovate la recensione qui), o Tata, Jo e Inca ne Le ragazze non hanno paura (recensito qui), è unica – non somiglia ad alcun altro personaggio, ad alcuna altra persona. Ed è viva sulla pagina, anche quando a prendere il controllo è l’Arianna Morta, o peggio, l’altra Arianna, quella di cui si vuole rinnegare l’esistenza, quella che non può essere perdonata e che chiama l’Erinni alla vendetta. In un finale che accelera sempre di più, e in cui la protagonista sembra sempre più sprofondare, Arianna Morta, sferzante, pone la domanda giusta, senza credere neanche un po’ nella risposta: “Pensi che l’amore basti a salvarti?”.
Ma la verità è che l’amore è l’unica cosa che può farlo e Alessandro Q. Ferrari ce lo ricorda in ogni suo romanzo. Anche in questo Chiedi ai sogni di fare rumare, infatti, è proprio l’amore che arriva e, seguendo vie inaspettate, si fa strumento principale di riscatto e redenzione.
Bisogna allora ammettere la possibilità di tornare indietro, alla Notte di Aida, di guardarla in faccia per fare i conti con quanto è successo e trovare, in qualche modo, la forza di perdonare se stessi. Farlo però non è semplice. È per questo che l’ultima parte del romanzo è così dura che non si può dire. Ha luogo, tra le pagine, una lotta straziante e senza esclusione di colpi, in cui la vita e la morte si scontrano, si contendono la protagonista. E a questa lotta siamo chiamati a partecipare completamente, perché la prosa di Alessandro Q. Ferrari non fa mai sconti. E Arianna ci diventa amica, figlia, sorella. Ogni riga ci strazia e vorremmo prenderle la mano come faceva Béla per ricordarle che c’è un’alternativa. Che le voci non devono essere messe a tacere per forza. Che invece che provare a zittirli, bisogna dare nuova forma ai sogni. Che la paura va bene, ma è necessario guardarsi dalla paralisi, da quei sentimenti che congelano l’esistenza e la fanno sembrare buia e senza via di scampo, come un vicolo cieco.
Non sono solo le storie imprevedibili, mai scontate, a fare la forza dei romanzi di Ferrari, a renderli quei libri che attendi e non vedi l’ora di leggere, anche se ormai non sei più adolescente da un pezzo. È, soprattutto, la sensibilità profonda dell’autore, quella capacità di cogliere un istante, o un sentimento, in poche parole che sono sempre quelle giuste. L’impressione che si prova a ogni pagina, di fronte a ogni personaggio, è che lui si ricordi esattamente come ci si sente a essere giovani e sperduti, privi di punti di riferimento, ma in ricerca. Di cosa voglia dire avere tante anime in sé che a ogni momento si scontrano e ti tirano in direzioni opposte. E di quanto siano importanti gli incontri che salvano. A questo si aggiunge un’abilità inconsueta nel descrivere i personaggi femminili, che sono sempre la luce interiore che fa risplendere le vicende narrate. Perché Arianna, come prima Sara in Devo essere brava (trovate la recensione qui), o Tata, Jo e Inca ne Le ragazze non hanno paura (recensito qui), è unica – non somiglia ad alcun altro personaggio, ad alcuna altra persona. Ed è viva sulla pagina, anche quando a prendere il controllo è l’Arianna Morta, o peggio, l’altra Arianna, quella di cui si vuole rinnegare l’esistenza, quella che non può essere perdonata e che chiama l’Erinni alla vendetta. In un finale che accelera sempre di più, e in cui la protagonista sembra sempre più sprofondare, Arianna Morta, sferzante, pone la domanda giusta, senza credere neanche un po’ nella risposta: “Pensi che l’amore basti a salvarti?”.
Ma la verità è che l’amore è l’unica cosa che può farlo e Alessandro Q. Ferrari ce lo ricorda in ogni suo romanzo. Anche in questo Chiedi ai sogni di fare rumare, infatti, è proprio l’amore che arriva e, seguendo vie inaspettate, si fa strumento principale di riscatto e redenzione.
Carolina
Pernigo