Le "Bad Girls" di Antonella Bolelli Ferrera: quando violenza genera violenza

 


Bad Girls. Da vittime a carnefici
di Antonella Bolelli Ferrera
La Lepre edizioni, 2021

Introduzione di Dacia Maraini
 
pp. 111 
€ 12,00

 



È un progetto nuovo, quello in cui si addentra Antonella Bolelli Ferrera, ideatrice del Premio letterario Goliarda Sapienza e curatrice delle raccolte dei Racconti dal carcere che sono derivati dalle diverse edizioni (trovate qui la raccolta delle recensioni). In un’intervista di qualche anno fa a proposito del concorso (la trovate qui), Ferrera già notava la disparità numerica tra i racconti finalisti scritti da uomini e quelli scritti dalle donne, che non è cambiata nel corso degli anni. Adesso, in questa nuova raccolta, proprio alle donne viene invece restituita la parola, che risuona tra le pagine forte e chiara.
In Bad girls infatti il punto di vista è quasi senza eccezione femminile – quasi perché una delle protagoniste, Maria, lotta invece per essere riconosciuta come Mario in un contesto durissimo, che non è certo aperto a questa possibilità:
Mi chiamo Mario e sono nato alle Vele di Scampia, in un buco di appartamento dove mia madre ha partorito sette figli, quattro femmine e tre maschi, anche se in realtà il numero andrebbe invertito, perché io nacqui femmina, cioè Maria. (p. 15)
L’autrice raccoglie le storie di nove donne per mostrarne le vite distrutte, non solo dal reato che le ha condotte in carcere, ma il più delle volte da trascorsi violenti e traumatici che a quel reato, a quell’epilogo le hanno condotte. Non c’è alcun desiderio, nel volume, nemmeno da parte delle diverse narratrici, di giustificare il crimine commesso. Piuttosto quello di inserirlo in un contesto, di mostrarne le cause, che spesso hanno radici profonde, e le conseguenze (mai soltanto la condanna da un punto di vista legale, spesso anche quella delle protagoniste verso se stesse, ancora più impietosa). Perché la violenza genera violenza e queste storie lo mostrano in modo inequivocabile: tutte le protagoniste sono innanzitutto vittime, di famigliari, compagni, anche del degrado sociale che spesso le circonda, o di un sistema che le discrimina o volutamente le emargina.
Antonella Bolelli Ferrera sceglie di mantenersi fedele, nella restituzione dei racconti, alle voci delle donne da cui li ha ascoltati: ne derivano così prose asciutte, spogliate di ogni elemento che non sia necessario alla trasmissione del messaggio e riportate all’essenziale, prose che feriscono per l’immediatezza con cui a ogni fatto, a ogni evento – per quanto terribile – viene dato il suo nome esatto: “mio padre entra nella mia cameretta con la scusa di rimboccarmi le coperte. Non è la prima volta. Comincio a sudare per la paura. Taccio, sperando che se ne vada. Non se ne va” (p. 12), racconta Sara. E poco dopo, senza sconti: “Ho odiato mia madre ancor più di mio padre e un giorno l’ho uccisa” (p. 13). È proprio in seno alla famiglia, che dovrebbe essere il luogo dell’accoglienza, della protezione, che si annidano spesso le peggiori violenze, i peggiori soprusi.
Questo è ciò che accade per esempio alla già nominata Maria, nata nel corpo sbagliato, chiusa e legata in cantina dal padre padrone che non ne sopporta l’omosessualità, ma non è certo l’unica.
Una delle parole che torna più spesso nei racconti è “vergogna”, quella che le donne sono spinte a provare per se stesse, per quello che sono, per quello che provano, o per quello che è loro capitato, che hanno subito. La vergogna scava un solco nella loro anima, le isola dal resto del mondo. Come nel caso di Mara, “macellata da viva” da un branco di sbandati, che dopo lo stupro viene spinta dai genitori bigotti a sentirsi responsabile, sporca e indegna. La mancanza d’amore, la solitudine esacerbano i sentimenti di malessere, spesso costituiscono il terreno fertile su cui si innestano la rabbia, la reazione. E quando la furia divampa, spesso rivolta contro i responsabili della prima ferita, non si consuma mai soltanto nella vendetta, ma finisce per travolgere l’intera esistenza della vittima, ora divenuta a sua volta colpevole:
la mia vendetta [...] doveva mettere la parola fine alla storia della nostra disastrata famiglia. Non è stato così: c’è il carcere, c’è il ricordo struggente di Federico, c’è la voce assordante della mia coscienza che non si acquieta. (p. 71)
Non ci sono morali, nella raccolta messa insieme da Ferrera, in cui ai nomi fittizi delle molte narratrici si associa quello ritornante di Patrizia Durantini, già finalista di una delle precedenti edizioni del premio. Non ci sono morali, perché ogni donna vive il dramma a modo suo, nella sua individualità, condizionata dalle specificità del proprio vissuto, della propria singolare emotività, anche se tra le mura del carcere molte di loro possono trovare per la prima volta spiriti affini, altre donne che, pur con differenti esperienze, condividono un dolore similare. È in questa inaspettata sorellanza, nell’ascolto e nella solidarietà di chi davvero può capire, che si annida una speranza di riscatto. E le lettrici, per cui il volume scorre rapido, ma anche straordinariamente impattante, non potranno che partecipare in qualche modo di questa empatia, di interrogarsi sulla propria stessa vita, su quali fattori (spesso su quali fortune), possano aver contribuito a tracciare itinerari così diversi da quelli delle protagoniste.
 
Carolina Pernigo