Fuga dalla rete. Letteratura americana e tecnodipendenza
di Luca Pantarotto
Le Milieu, 2021
pp. 184
€ 14,90 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Il re è nudo. In mezzo alla stanza, in cui sono riuniti alcuni fra i più importanti scrittori statunitensi contemporanei, Luca Pantarotto grida «Il re è nudo». Responsabile comunicazione digitale di NN editore ed esperto di narrativa americana, Pantarotto osserva e si interroga da anni sul rapporto fra letteratura e tecnologia, al centro ora del saggio Fuga dalla rete, pubblicato con Le Milieu. Un testo agile, non necessariamente rivolto a esperti o addetti ai lavori, ma utilissimo per riflettere sul rapporto – mancato – fra tecnologia e letteratura statunitense, proprio quella, secondo l’autore, che più delle altre avrebbe dovuto dare gli esiti migliori e più immediati. Perché il nodo centrale del saggio è appunto questo: la rivoluzione digitale è stata per lo più ignorata o trattata superficialmente dalla letteratura, denotando «l’incapacità degli scrittori di sintonizzarsi davvero con il proprio tempo».
Il saggio di Pantarotto è denso di spunti e considerazioni molto interessanti: nel delineare le tappe più salienti della rivoluzione digitale, pone il lettore di fronte a domande e criticità con cui chiunque viva nel mondo contemporaneo è tenuto a confrontarsi ma notando come, paradossalmente, proprio la letteratura, i grandi narratori del nostro tempo, non siano finora stati davvero in grado di analizzare a fondo la questione. Non si tratta soltanto di narrazioni “fuori dal tempo”, in cui la tecnologia e le sue varie implicazioni non entrano nella storia, ma di una criticità più profonda, ossia il pregiudizio e il rifiuto dietro cui gli scrittori sembrano trincerarsi.
E forse, l’esempio più significativo e ingombrante è Jonathan Franzen, che negli anni ha speso migliaia di parole nel manifestare – online e sulle principali riviste – il proprio odio per le nuove tecnologie e i social ma che, alla prova con la narrativa, non ha saputo dare sul serio un contributo al dibattito sulla rete. Purity, il romanzo che più di ogni altro ci si aspettava sarebbe stato “Il Grande Romanzo Americano dell’era di Internet”, tradisce in questo senso tutte le aspettative per la scarsa capacità di analisi, il rifugio in stereotipi e una sostanziale superficialità con cui troppe questione fondamentali vengono trattate.
L’idea della rete espressa in Purity è un’occasione persa. Non ha nulla di interessante nemmeno ai fini di un’eventuale lettura denigratoria della contemporaneità. Di fronte a un fenomeno storico di cui disprezza più o meno ogni singolo aspetto, Franzen semplicemente rinuncia a capire. Di più: si rifiuta di approfondire, trincerandosi in uno splendido e distaccato isolamento da cui non esce mai se non pr valicare appena i confini dei più triti luoghi comuni […]. (p. 80)
Dopotutto «Jonathan Franzen says No», come ben rappresentato da Tom Gauld nella celebre striscia apparsa nel 2013 sul Guardian. È vero che lo scrittore dice molto più di un “no” a proposito delle tecnologie e dei social media, ma il risultato, in sintesi, è quello espresso da Gauld. Per Franzen, sottolinea Pantarotto nel capitolo dedicato, la modernità non è altro alla fine che una degenerazione umana, cognitiva e morale.
Che si sposino o meno le posizioni di Franzen e si resti perplessi dalla mancata occasione di Purity, c’è senz’altro un punto su cui possiamo essere d’accordo, ossia il vortice di esibizionismo e autoreferenzialità in cui sono scivolati gli scrittori a causa dei social media – e, per Franzen, Twitter soprattutto:
Allontanandoli dal lavoro con mille distrazioni superficiali e impedendo loro di sviluppare una comunicazione autentica con gli altri attraverso la quiete e la durevole stabilità della pagina scritta, i social media hanno trasformato gli scrittori in perditempo affamati di visibilità, che sprecano la giornata a mettersi continuamente in mostra invece di dedicarsi ad affinare la propria arte. (p. 63)
È un meccanismo che svela, per contro, anche un mutamento nel processo di lettura che, faceva notare già Nicholas Carr in un articolo del 2008 (Is Google making us stupid?), si è tradotto in una minore capacità di concentrazione, nella superficialità dei contenuti e delle ricerche che non mirano quasi mai all’approfondimento. Il rapporto quindi fra social e concezione della letteratura/lettura, attraversa buona parte dell’opera di Franzen, ma, sottolinea Pantarotto, neanche lui è stato in grado di andare oltre gli stereotipi, rifiutandosi di comprendere il mondo in cui viviamo.
Un’indifferenza data molto spesso dal pregiudizio o dal timore, che sembra aver originato una “narrativa del rifiuto” su cui questo saggio si interroga, scandagliando le tappe fondamentali della produzione letteraria intrecciata alla rivoluzione digitale, fra grandi distopie novecentesche non sempre adeguatamente interpretate (davvero molto interessanti in questo senso le considerazioni di Pantarotto su 1984 e Il mondo nuovo), l’utopia di internet delle origini, cliché, sguardi superficiali.
Quando il romanzo [1984, Orwell] descrive l’utilizzo dei mass media come strumenti per manipolare la popolazione e diffondere notizie false, incanalare impulsi e passioni contro avversari immaginari, cavalcare paure e insicurezze per mantenere il potere o spingersi persino a riscrivere il passato, la sensazione è che stia parlando proprio di noi. Con una differenza fondamentale: […] l’abdicazione volontaria alla propria privacy e alla propria indipendenza, sacrificate spontaneamente e senza costrizioni sull’altare della visibilità […]. (p. 118)
La rinuncia volontaria alla privacy è anche uno dei nodi centrali de Il cerchio, il romanzo con cui Dave Eggers nel 2013 ha tentato di raccontare «la deriva umana di una società digitale incontrollabilmente iperconnessa» e quello che, secondo Pantarotto, almeno nelle intenzioni ha tentato più di tutti di affrontare sistematicamente tutti i nodi fondamentali dell’ingerenza della tecnologia nelle nostre vite. Ma, anche in questo caso, le aspettative non vengono pienamente realizzate e, seppur il romanzo di Eggers non manchi di spunti interessanti, alla fine questo restano: spunti, considerazioni talvolta troppo superficiali, domande prive di risposte, lacune che non possono essere ignorate.
È chiaro, quindi, come il saggio di Pantarotto metta in luce nodi cruciali della questione letteratura e tecnologia, sottolineando da una parte l’indifferenza dietro cui taluni scrittori si sono trincerati, un silenzio atemporale in cui manca la consuetudine, la quotidianità, della rete e della tecnologia; dall’altro narrazioni che tradiscono le aspettative e in cui nessuno viene risparmiato: su questo argomento deludono, in forme diverse, le narrazioni di Franzen ed Eggers, ma anche Cell di Stephen King, la satira grossolana di Wayne Gladstone e numerosi altri. È, fortunatamente, lo sguardo critico di Pantarotto ad addentrarsi nei meccanismi del legame fra tecnologia e letteratura senza pregiudizi o soluzioni semplicistiche, spingendo il lettore a interrogarsi a sua volta su tecno dipendenza, implicazioni della rivoluzione digitale sulla nostra quotidianità e sviluppo comportamentale; e, soprattutto, su ciò che chiediamo alla Letteratura, sul ruolo stesso che gli scrittori dovrebbero svolgere nuovamente appieno, un punto su cui varrebbe la pena soffermarsi a fondo.
Forse come sostiene Pantarotto è da questa parte dell’oceano che guardiamo con particolare delusione a questa mancanza, perché ancora una volta era dalla letteratura statunitense, dal luogo dove in fondo la rivoluzione digitale è partita, che ci si aspettava un maggior grado di interpretazione o semplicemente di attenzione alla contemporaneità. Restano salvi nelle narrazioni contemporanee i topoi consueti, ma tutto questo non è più sufficiente. Viviamo in un mondo troppo complesso e le riflessioni della letteratura su relazioni, sentimenti, politica e qualsiasi altra istanza del mondo contemporaneo, non possono più restare fuori dal tempo, indifferenti e disinteressate a comprendere le dinamiche che non sono soltanto il mondo di oggi ma la nostra vita stessa.
È un libro minuscolo, probabilmente, quello che ad oggi pare riuscire meglio in questo intento: Il Silenzio di Don DeLillo, con la sua frammentarietà e le molteplici dinamiche messe in atto, restituisce al lettore non soltanto uno sguardo comprensivo di buona parte dell’universo letterario delilliano, ma anche le complesse dinamiche di questo mondo attuale, non limitandosi a scalfire la superficie della questione ma tentando di esplorare – alla maniera di DeLillo, ovviamente - le principali implicazioni di questa rivoluzione digitale. Curioso che per farlo l’unico modo possibile sia proprio immaginare un «improvviso collasso di ogni forma di tecnologia», ma è da lì che lo scrittore osserva, si cala dentro i personaggi, nelle dinamiche di coppia e relazionali, nel concetto di identità.
Ed è da qui, forse, che la narrativa statunitense potrebbe ripartire per tentare di recuperare questa mancanza.
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