Lingua e essere
di Kübra Gümüşay
Fandango libri, aprile 2021
Traduzione di Lavinia Azzone
pp. 240
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Solo quando ci libereremo della nostra pretesa di assolutezza, solo quando non ci sarà nessuna prospettiva che dominerà sulle altre, sottomettendole e schiacciandole da un punto di vista strutturale, solo quando tutti potranno parlare liberi indipendentemente dall’origine, dall’etnia, dal corpo, dalla religione, dalla sessualità, dal sesso, dalla nazionalità. Solo allora tutti potremmo essere. (p. 179)
Cosa significa responsabilità? Cosa significa vivere in un mondo in cui le uniche parole possibili per catalogare e interpretare il mondo vengono pronunciate da persone privilegiate, in una prospettiva univoca e soffocante? Cosa significa imparare l’importanza della pluralità, dell’accoglienza?
Ce lo insegna Kübra Gümüşay, nel suo ultimo libro, Lingua e essere. Ci porta con lei in un viaggio all’interno della società, rivelando ai nostri occhi una pluralità di voci, di lingue, che purtroppo rimangono troppo spesso nascoste, invisibili agli occhi di molti.
Ci fa immaginare la lingua come un grande museo, in cui i privilegiati, padroni del mondo, uomini bianchi, identificati qui come “innominati”, cui non vengono attribuite etichette, passeggiano tranquilli, per osservare da vicino chi invece si cela sotto le teche di vetro, in mostra al mondo: sono gli Altri, i “nominati”, etichettati e catalogati, disumanizzati perché privati della loro individualità. Una metafora molto forte, ma atrocemente vera. Uno strumento linguistico radicato nella nostra società da tempo immemorabile. Usiamo gli stereotipi per comprendere la complessità umana, per interpretarla, ed è un meccanismo del tutto naturale. Ma catalogare linguisticamente delle intere categorie, non riconoscendole in primo luogo come composte di esseri umani, ognuno con la propria specificità e irripetibilità, è una violenza linguistica che la nostra coscienza non si può permettere di tollerare; o almeno non dovrebbe.
Parlare è un’azione così semplice, così naturale, che ci dimentichiamo che quelle semplici parole, pronunciate con così tanta superficialità e leggerezza, annichiliscono l’Altro. L’Altro, specchio di noi stessi, di cui abbiamo paura. Perché accogliere la diversità, accogliere l’Altro, ci può mettere a nudo, svelando sfaccettature del nostro Essere che non conoscevamo. La musulmana, la transessuale, il rifugiato, il gay, lo straniero… Quante volte usiamo queste parole? Quante volte le leggiamo, le ascoltiamo ai telegiornali? Troppe, tanto da apparirci normali. Ma quando invece parlano di noi, ci etichettano alla stessa maniera?
Questo libro mi ha dato modo di immaginarmi la realtà ribaltata, l’Altro che parla di me. Mi piacerebbe essere vista come portavoce di una comunità intera? Di portare il peso degli errori dei miei simili, di non essere vista nella mia individualità, ma di essere disumanizzata, ridotta a una parte indistinta di un tutto generico, come una dolorosa e umiliante sineddoche. Certo che no. E proprio attraverso queste domande, che l’autrice indirettamente mi ha posto, mi sono resa conto, anche se ne sono conscia da sempre, di essere una privilegiata. Nel grande museo della lingua, io non sarei vista attraverso delle teche di vetro, non sarei in mostra. Sarei libera: libera di camminare, libera di parlare senza pormi troppe domande, libera di lavorare, libera di viaggiare, libera di essere. È un privilegio enorme, concesso solo a pochi, a quelli nati nella parte giusta del mondo, cui è stata tramandata una lingua considerata privilegiata, come l'inglese, il francese o l'italiano. Ma questo privilegio ad altri non è concesso. E come fare per cambiare la realtà? Forse partendo proprio dalla lingua. Assumendoci la responsabilità delle parole che usiamo per decifrare il mondo. E cercando una via di fuga da questa lingua ristagnante, “liberandoci da questa pretesa di assolutezza”, da questa interpretazione del mondo sempre e solo filtrata attraverso un punto di vista unico. Ma una sola interpretazione non è sufficiente per avvicinarsi all’oggettività del mondo, come ricorda l’islamista e arabista Thomas Bauer: « […] ci si avvicina all’“obiettività” solo se si adotta un numero infinito di prospettive. Imporre agli altri la propria prospettiva è una “ridicola presunzione”. » (p. 151)
Questa disumanizzazione è la chiave di accesso all’odio. Se non vediamo l’Altro come un essere umano, ci risulta facile odiare, facciamo piazza pulita di tutti i mondi che non conosciamo, così vivere, senza una coscienza e uno sguardo critico al mondo in cui viviamo, ci risulta più semplice. Ma come ci ricorda l’autrice: “Dobbiamo richiamare all’ordine la misantropia. Non possiamo tollerarla ed elevarla a “idee” che rivitalizzano il dibattito, ma dobbiamo chiamarla con il suo nome: razzismo. Estremismo. Misantropia. Fascismo. L’odio non è un’idea.” (p. 113)
Quest’odio viene tuttavia fomentato dai social media, luoghi in cui tutti sono liberi di parlare, dando adito a fenomeni razziali di diventare “normali”. Le parole hanno tuttavia delle conseguenze, in qualsiasi luogo esse si trovino. Se internet da una parte è luogo in cui la pluralità diventa una forza, facendo sentire meno soli gli emarginati e rendendo visibile ciò che prima non lo era, dall’altra è un luogo in cui idee violente e stereotipate trovano un terreno fertile.
Questo libro è un saggio lucido e scientifico, sul potere della lingua e della responsabilità che essa comporta. Fa riflettere sulla società in cui viviamo, invitando il lettore a porsi delle domande, a vedere il mondo in cui vive per quello che è, un imponente museo, in cui attraverso la lingua si creano realtà privilegiate e realtà emarginate, disumanizzate e catalogate con etichette, in una spirale di violenza che oltre a disumanizzare l’Altro, disumanizza anche noi stessi.
Una voce matura e potente quella dell’autrice, attivista e femminista che stimola un discorso politico costruttivo online e offline, con la speranza di un mondo in cui la pluralità possa trionfare, e l’accoglienza e la comprensione diventare un’azione umana naturale, proprio come quella del parlare.
Lidia Tecchiati
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