"Scrittori e amanti" di Lily King: la scrittura, il dolore, la stratificazione di un romanzo sorprendente


Scrittori e amanti
di Lily King
Fazi, 2021

Traduzione di Mariagrazia Gini

pp. 330
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 


 

«Where were the books about women writers? Where were the books about their struggles?» (“Lily King, on writing the novel she needed 30 years ago”, Literary Hub)
Quando Lily King, all’epoca studentessa e poi neolaureata con il sogno di diventare scrittrice, si confrontò con la necessità della scrittura e tutte le problematiche che comportava, non furono molti i termini di confronto e, perdonate il gioco di parole, di conforto che trovò nelle sue letture. Moltissime le riflessioni al maschile, tanto nella narrativa quanto nella saggistica, ma davvero esiguo il numero delle scrittrici e delle opere che inquadrassero la questione dal particolare punto di vista femminile. Quello che ha fatto King molti anni dopo è stato in buona sostanza colmare un vuoto ma, soprattutto, tendere la mano alla sé stessa del passato aspirante scrittrice: 
«There was only one thing I wanted to write: the novel I needed to read in my twenties and thirties, a story of a young woman struggling to become a writer.» (“Lily King, on writing the novel she needed 30 years ago”, Literary Hub)
Mi sono imbattuta in questo articolo al termine della lettura di Scrittori e amanti, nel tentativo di riordinare le idee e prendere un poco le distanze da un romanzo che ho molto amato prima di poterne scrivere lucidamente. Non credo il tentativo abbia funzionato, ma di certo leggere quell’articolo ha illuminato ancor di più le pagine che avevo appena chiuso. Il cuore di questo romanzo, di recente pubblicato in Italia da Fazi editore nella puntuale traduzione di Mariagrazia Gini, è contenuto in quelle parole di Lily King, la storia di una giovane donna che lotta per diventare una scrittrice. Un centro da cui si irradiano molte altre terminazioni, rivelando pagina dopo pagina la profonda stratificazione con cui questo romanzo, solo all’apparenza semplice, è costruito.
La narrazione in prima persona, l’unica possibile, permette al lettore non solo di entrare nella storia, ma di sentirla, anche quando questo comporta confrontarsi con il dolore, la perdita, il lutto, la sconfitta, l’ipocrisia. Casey – ma, scopriremo, non è il suo vero nome – ha trent’anni, è sommersa dai debiti univerrsitari, una spada di Damocle da cui pare inimmaginabile liberarsi, lavora come cameriera in un ristorante ben frequentato, vive in un luogo che è chiaramente improprio definire appartamento; e scrive, scrive ogni mattina, da sei anni, un romanzo. Ha studiato scrittura creativa, ha conseguito un dottorato, viaggiato e vissuto all’estero per un po', è finita a pezzi per via di relazioni fallite e ha continuato a scrivere, mentre tutti i suoi amici, aspiranti romanzieri e poeti, piano piano hanno abbandonato il sogno, scelto carriere più sicure, trovato la stabilità, anche a costo di sé stessi. 
Immagino tutti quelli che recitano una parte e si allontanano sempre di più da sé stessi, da quello che li commuove, che gli rimescola le viscere. (p. 156)
Scrive, nonostante – o forse proprio perché – tutto nella sua vita sembri frantumarsi. Ha perso l’amatissima madre, pochi mesi prima, e il vuoto che la sua assenza ha lasciato è una voragine da cui viene inghiottita, specie nelle belle giornate, quelle in cui per un attimo mentre pedala verso il lavoro e passa accanto alle oche nel laghetto del parco, per un breve momento pensa di poter essere felice, nonostante i debiti e la paura, ed è lì che fa più male:
Amo queste oche. Mi fanno gonfiare il petto, mi convincono che tutto tornerà a posto, che supererò questo momento come ne ho superati altri, che lo spaventoso, immenso vuoto che ho davanti è solo un fantasma, che la vita è più leggera e più divertente di quanto io sia disposta ad ammettere. Ma questa sensazione, il sospetto che non sia ancora tutto perduto, si porta dietro la voglia di dirlo a mia madre, di dirle che oggi sto bene, che ho provato una cosa vicina alla felicità, che forse sono ancora capace di sentirmi felice. Una cosa del genere vorrà saperla. Ma non posso dirgliela. Questo è il muro dove vado immancabilmente a sbattere nelle mattine belle come questa. (p. 13)
È un dolore acuto, ogni volta rinnovato. Lily King in quel dolore si addentra, ne mostra gli effetti sul corpo, il ricordo che si mescola alla sofferenza, la quotidianità di una mancanza totale. Che cosa resta di chi abbiamo amato e perduto? «Chi viene ricordato, vive» si dice in una scena struggente di Nomadland, il meraviglioso film tratto dall’omonimo romanzo. È qualcosa di estremamente difficile confrontarsi con il tempo che indifferente scorre, la vita che si insinua nel dolore e pare sbiadire proprio quello che non vorremmo mai perdesse colore. Ma capita che un giorno qualunque si possa trovare un senso nella scoperta che quell’amore non è davvero andato perduto:
Canto per le oche. E sento lei. È diverso dal ricordarla o dal desiderarla. La sento vicino a me. Non so se sono le oche o il fiume o il cielo o la luna. Non so se è fuori da me o dentro di me, ma è qui. Sento il suo amore per me. Sento il mio amore che arriva fino a lei. (p. 102)
Scrittori e amanti è anche attraversato da un velo leggero di umorismo, un equilibrio di dolore e grazia, vita e morte che non era affatto facile saper costruire, eppure in qualche modo diventa possibile mentre seguiamo Casey affondare nel proprio dolore, indossare la divisa da cameriera e insieme a quella la maschera della normalità, il distacco, poi abbandonarsi alla scrittura in quel misto di gioia e sofferenza.
Abbandonarsi, ecco:
Quando si scrive, la cosa più difficile è entrarci tutti i giorni, rompere la membrana. La seconda cosa più difficile è uscirne. A volte vado troppo in fondo e risalgo troppo in fretta. Dopo mi sento aperta e senza pelle. Il mondo intero mi sembra umido e malleabile. (p. 91)
Ci sono brani folgoranti in questo romanzo, lievi increspature ad aprire squarci, riflessioni che si fanno spazio tra le proprie cicatrici e lì restano. Non soltanto sulla scrittura, su quanto sia doloroso «dissotterrarle» quelle cose che tanto duramente hai lavorato per tenere nascoste. Del dolore che comporta per la protagonista perdere l’unica «ancora affettiva» al mondo, del riconoscersi nella sofferenza di qualcun altro, comprendersi spogliandosi uno strato dopo l’altro. Di uomini, anche, alcuni così mutevoli, meschini, dall’ego enorme, specie se nutrono qualche ambizione letteraria. Educati nella convinzione di essere destinati alla grandezza, forse però più attrezzati di noi ad accogliere il successo quando arriva, a sentirsi adeguati:
Non sono racconti, mi diceva. Sono polipetti duri che sto cercando di togliermi dal cervello. In quel momento era come incendiata da una grande energia nervosa. Rispetto ad allora, sembra svuotata. Seduta lì sullo sgabello, sembra in imbarazzo per essere quella che è ora. Pare angosciata da tutti i complimenti che le fanno i colleghi di Muriel. Gli uomini vivono meglio il successo. (p. 80)
«La poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita» declamava il professor Keating. La scrittura, l’amore che non scompare mai davvero del tutto, le nostre cicatrici, sono le cose che aggiunge Lily King. Quelle per cui vale la pena.