Lizzie
di Shirley Jackson
Adelphi, 2018
pp. 316
€ 12,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Titolo originale:
The Bird’s Nest
Traduzione di Laura
Noulian
Elizabeth Richmond, ventitré anni, impiegata
come dattilografa al museo, conduce la vita piatta e mediocre del perfetto
burocrate, che non ha nessun interesse al di fuori del lavoro, e anche al
lavoro va per inerzia e senso del dovere più che per reale interesse. Priva di
slanci, passioni, affetti stabili, vive con una zia con cui non ha grandi
scambi emotivi e in ufficio nessuno si ricorda davvero di lei (“era così poco interessante da non meritare
nemmeno un soprannome”, p. 15). La sua esistenza piatta, da lei condotta
con una rassicurante prevedibilità, subisce però a un tratto una serie di
scossoni: innanzitutto il lento sprofondare delle fondamenta del museo, che
produce una lieve inclinazione del pavimento (una stortura che diventa
immediatamente inquietante metafora); poi l’apertura di un varco nella parete
accanto alla sua scrivania; infine una lettera sgrammaticata e minacciosa che
arriva, inspiegabilmente rivolta proprio a lei, ed è in verità la prima di una
lunga serie. Dispiegando sulla pagina una sottile ironia, Jackson è pronta a
mettere in dubbio il rapporto di causa-effetto tra i fenomeni, creando fin da
subito quel senso di straniamento che contribuisce così bene alle atmosfere
orrorifiche dei suoi romanzi:
Non è dimostrato che il suo equilibrio personale venisse alterato dalla pendenza del pavimento, né si poté dimostrare che fosse stata lei a svellere il palazzo dalle fondamenta; è innegabile tuttavia che l’uno e l’altro cominciarono a smottare all’incirca nello stesso periodo. (p. 13)
Anche la percezione distorta che Elizabeth ha degli eventi aiuta in tal senso:
davanti ai biglietti sempre più frequenti e sempre più aggressivi, la ragazza
prova quasi un senso di sollievo per quella che le pare una pretesa di
vicinanza e intimità, che la fa sentire per la prima volta oggetto di interesse
(“le davano una sensazione preziosa, era
come se alla fine qualcuno l’avesse scovata, qualcuno di intimo e caro,
qualcuno che voleva averla sempre sotto gli occhi”, p. 31). Le lettere,
tuttavia, non sono il solo problema che affligge la protagonista: i mal di
testa intensi intensissimi che la colpiscono all’improvviso e che le strisciano
lungo la spina dorsale “come una creatura
vivente” (p. 36) fino a ridurla a uno stato di assoluta prostrazione; gli improvvisi
vuoti di memoria e gli scarti temporali in cui si ritrova spaesata; gli eventi
che le vengono rinfacciati e che non è in grado di spiegarsi: tutto fa pensare
che siano in azione forze che la
trascendono e che preoccupano, ancora prima di lei, la zia Morgen con cui
vive, che la spinge a rivolgersi a un medico.
Il dottor Wright è un medico della vecchia
scuola, nient’affatto affascinato dalle nuove teorie freudiane, eppure ispirato
da un solido buonsenso (o così almeno sostiene) a occuparsi dei problemi della
mente. Nel momento in cui prende in cura Elizabeth, cerca di risalire attraverso l’ipnosi alle origini del suo disturbo
nervoso, che lui ritiene dipendere da un trauma nascosto nel passato e poi
rimosso. Sennonché, mentre il dottore non fa che ribadire nel suo diario delle
sedute convinzioni mediche che vengono puntualmente disattese dai fatti, il
lettore pensa sempre più spesso a quel Freud che il personaggio vorrebbe
rinnegare. C’è infatti qualcosa di
profondamente oscuro che si nasconde dentro a Elizabeth, dietro alla
maschera di grigiore esibita nel quotidiano. Wright ci si avvicina poco alla
volta, forzando la mano alla sua paziente, spinta oltre confini dietro cui non
vorrebbe andare, tanto che si inizia a chiedersi se non ci sia qualcosa di poco
trasparente anche nelle motivazioni e nei metodi del dottore, oltre che nella
psiche della protagonista.
Basta qualche mese di lavoro del dottore per
rendersi conto che la ragazza che sembra
“incapace di avere una personalità” (p.
15) finisce in realtà per averne troppe,
tutte più dominanti di quella esibita al mondo, sciatta e amorfa. Oltre a
Elizabeth, il medico riesce a incontrare la garbata, deliziosa Beth, e Betsy,
chiassosa, egocentrica, feroce come il demonio ma anche immatura ed egoista
come una bambina. I diversi piani della
personalità della protagonista iniziano a confliggere tra loro, mentre il
racconto si sposta dall’analisi psicologica all’esplorazione del perturbante e
le tinte della narrazione di fanno cupe, il ritmo frenetico. Da dove è derivata la scissione di
Elizabeth? Qual è il segreto che la giovane non conosce più e a cui ogni
personalità sembra poter accedere solo in piccola parte? Attraverso i frammenti
di ricordi e il racconto di Wright, si configura un vero e proprio thriller dell’anima.
Va detto però che, ad ogni capitolo e
cambiamento di punto di vista, il libro sembra mutare genere di appartenenza.
Quando a prendere la parola è Betsy, lo sguardo si dilata. Insospettabilmente, in
lei si scoprono l’ingenuità e la meraviglia, la voglia di scoprire il mondo, ma
si avvia anche un percorso a ritroso, in ricordi prima sconnessi poi sempre più
chiari che riportano all’infanzia e alla madre perduta, donna capricciosa, dai
molti amanti, su cui le domande iniziano a moltiplicarsi. Cos’è capitato alla
donna con cui Elizabeth condivide il nome? C’entra qualcosa la sua relazione
con Robin? Il vagare di Betsy (ma è poi
davvero Betsy?) tra le vie di New York, i suoi incontri fortuiti, le
conversazioni stranianti, il delirio a suo modo logico che la guida in una
ricerca impossibile si fanno riflesso
del labirinto della mente in cui la protagonista rischia di perdersi.
Nel corso delle pagine, mentre facciamo
conoscenza con una quarta e ultima figura, quella avida e meschina di Bess, bloccata
con la memoria a poche settimane dopo la morte della madre, le personalità della protagonista iniziano a
differenziarsi sempre di più, ad acquistare autonomia, spessore e
consapevolezza, e non si può non notare come il dottor Wright sia sempre
più avvinto non solo dal caso clinico da risolvere, ma anche da quello che
inizia a considerare il suo “gruppetto di ragazze”. In balia di un
delirio d’onnipotenza di cui è solo parzialmente consapevole, inizia anche a
dare un rilievo eccessivo al suo ruolo nella ricomposizione dell’unità psicologica
di Miss Richmond. Il suo scegliere come figura di riferimento il dottor
Frankenstein suscita tuttavia nel lettore l’idea di un esito potenzialmente
drammatico:
Mi vedevo, se l’analogia non è troppo estrema, come un Frankenstein che ha per le mani il materiale necessario per costruire un mostro. (p. 180)
Rispetto ad altri volumi della Jackson, caratterizzati da una prosa che procede
per sottrazione e risulta quindi più sottile nella trasmissione del messaggio, questo
romanzo giovanile si rivela più ridondante, soprattutto nella parte conclusiva,
in cui perde in densità per dare spazio ad alcuni elementi collaterali, seppure
non privi di interesse, come la caratterizzazione della zia Morgen, a cui è
dedicato un intero capitolo. Nonostante ciò, l’intreccio riesce a mantenere il
lettore avvinto alla pagina, dal momento che fino all’ultimo non si riesce a capire se, quando e come possa avvenire uno scioglimento.
Quello che l’autrice riesce a mettere in scena con l’abilità consueta è il lungo conflitto, interiore ed
esteriorizzato, della protagonista per tornare a riappropriarsi di un’identità
unitaria, per poter finalmente tornare a concepire un “io” al posto di un
“noi”. Anche in Lizzie del resto – e come
sarà poi nelle opere della maturità – molti dettagli rimangono inspiegati ed è
lasciato al lettore l’onere dell’interpretazione conclusiva, il compito di
rimettere insieme gli indizi disseminati nel corso della narrazione. Per gli
amanti di Shirley Jackson non potrà che essere un piacere accogliere la sfida,
accompagnando la protagonista alla scoperta del suo nome definitivo, o forse a
qualcosa che vale ancora di più.
Carolina Pernigo
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