Notti insonni
di Elizabeth Hardwick
Blackie Edizioni, 2021
Traduzione e postfazione di Claudia Durastanti
Prefazione di Joan Didion
pp. 176
€ 19 (cartaceo)
«Evocherò questo ricordo per te»: si racchiude in questo passaggio, in poche parole dirette a un vecchio amico, il cuore di Notti insonni di Elizabeth Hardwick, da poco in libreria per Blackie edizioni. “Evocare” e “ricordo”, l’assoluta precisione con cui i termini sono scelti, nella versione originale e in quella italiana tradotta da Claudia Durastanti, che firma anche un’interessante postfazione. Due termini che ben inquadrano il senso di questo libro che sfugge a ogni etichetta: un memoir nella intenzioni, un romanzo sperimentale e molto contemporaneo nella resa pur essendo uscito la prima volta nel 1979. Quale che sia la definizione che vogliamo dargli, Notti insonni rifiuta di essere inquadrato rigidamente.
C’è molta vita, dentro, evocata quasi in sogno da Elizabeth Hardwick, ma ben poca riguarda direttamente quel mondo intellettuale di cui pure è stata protagonista, non ostentata. Eppure sarebbe stato così facile scrivere un libro di quel genere: la ragazza di provincia che riesce a farsi strada e imporsi sulla scena intellettuale newyorkese, la scrittrice e redattrice, tra i fondatori della New York Review of Book; la moglie del celebre poeta; i circoli artistici frequentati, i successi, il mondo vissuto. Ma non sono queste le intenzioni di Hardwick, non è così che immagina il suo memoir-romanzo. Tutto questo lo conosciamo da altre fonti, ne troviamo qualche traccia qui e lì nel corso della narrazione, ma potremmo anche dimenticarcene e fare spazio solo a quello che lei sceglie di evocare sulla pagina.
Evocare, ancora: questa parola risuona, torna, perché sta proprio lì il senso della narrazione costruita per frammenti, come faranno altre importanti autrici che anche noi abbiamo scoperto in anni recenti, Jenny Offill, Sarah Manguso. Ma qui il frammento non è romanzo, non in senso tradizionale almeno, bensì stralci di vita, memoria che si anima sulla pagina.
Due sono a mio parere i poli più importanti di questa narrazione, a cui ogni cosa può essere ricondotta: i luoghi e le persone. New York, prima di tutto, città di contrasti, dove sogno e realtà duramente si scontrano, sporca, notturna, bellissima e crudele.
È ora di bere cocktail. Il momento per il quale tutta New York lavora, dice bugie, si allena, si affretta, si veste. New York: non è una città per poveri questa. La presenza dei poveri rovina tutto, tutto. La paura, ecco cos’è l’aria tossica che hanno attorno. (p. 73)
La città scelta, a cui sempre tornare dopo i tanti viaggi che verranno, in giro per il mondo. Ma c’è un momento in cui casa è ancora la piccola cittadina del Kentucky, fra continue partenze e ritorni, luoghi e persone familiari. Le partenze, i lunghi periodi in viaggio, lontano, la confusione di quale posto definire casa e, ancora, il frammento a costruire la narrazione: sono elementi ben noti a Claudia Durastanti e davvero non si poteva immaginare traduttrice migliore per questo libro, di cui riesce a restituire l’evanescenza, lo straniamento, lo slancio lirico, la vita.
Insieme ai luoghi, le persone: gli amici, gli artisti, gli incontri casuali di cui sbloccare il ricordo, le relazioni e i tormenti. Un’umanità molto spesso dolente, ma mai patetica, di cui Hardwick osserva e racconta le molte forme della solitudine, da un luogo all’altro; mutano le persone, i luoghi, ma non i sentimenti. Le dipendenze di Billie Holiday, bellissima e imponente dentro locali bui, la disperazione di un amico ingannato da sé stesso e dal tempo, giovani ingenue e irrimediabilmente perdute, amanti, mogli, ragazzi e vecchi, persone e luoghi sfilano sulla pagina e la incendiano.
A volte la pioggia era bellissima. Le striature lavanda e argento, luccicanti nel fango, chiedono di essere onorate, di ricevere qualche parola di gratitudine. La dolcezza dei pomeriggi umidi, il conforto di aprire la porta e trovare tutti dall’altra parte. (p. 34)
Su tutti, la madre: la sua evocazione provoca nostalgia, commozione, porta con sé interrogativi a cui non è possibile dare risposta certa. «Mareale», così la descrive, per sottolineare l’accettazione con cui ha affrontato ogni cosa, la vita stessa. Brevi ricordi di lei, che si fanno squarci sulla pagina. Una donna semplice, che non ha mai desiderato troppo e accettato quel che la vita le metteva davanti; ma quali mondi nascondeva dentro, quali sentimenti? Nell’interrogarsi sulla madre, ecco inevitabile anche riflettere su cosa sia giusto raccontare, quando le parole diventano tradimento. Pezzi di vita, limitate peregrinazioni se paragonate a quelle della figlia, come diverso il valore che danno alla memoria, «agli scenari addolciti con lo sguardo rivolto alle spalle». Ma chi era davvero questa donna? E come fa male ancora il ricordo di chi si è perduto.
Come spesso accade si diventa donne guardando alle nostre madri, tentando di assomigliarle o, per contro, prendendone il più possibile le distanze. E forse solo da adulte scopriamo quanto poco avevamo capito, quanto mistero resta tale.
È un libro strano Notti insonni e fa qualcosa di spaventoso: ci mette di fronte a noi stessi, smuovendo ricordi, invocando domande.
Tutto mi è arrivato, e tutto mi è stato tolto, perché mi sono sempre spostata da un posto all’altro. (p. 135)
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