Un romanzo messicano
di Jorge Volpi
Bompiani, 2021
Traduzione di Bruno Arpaia
pp. 494
€ 20,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Una tendenza della letteratura contemporanea – si potrebbe parlare di letteratura ipercontemporanea per usare una categoria più precisa ma che a me non piace in modo particolare – è quella di aprirsi al realismo, a un realismo nelle descrizioni e nelle situazioni a volte dal sapore ottocentesco ma con una consapevolezza generale diversa, quella di fondarsi, cioè, sulla convinzione che la realtà non può essere rispecchiata perché è mediata dalle costruzioni culturali ed è già narrata dai media, come aveva sottolineato anche Umberto Eco già sessanta anni fa. Una necessità sempre più impellente nelle persone è quella di scrivere e di dire “io c’ero, io ho visto, io ho sentito” per poter dare maggiore peso a un’opinione su un fatto e per poter discutere un evento più o meno vicino con l’impressione di avere una maggiore autorità, necessità che pare accomunare un numero di persone sempre più grande, come si può notare dal fenomeno delle stories e anche da quello del ritorno ridondante della soggettività in ogni situazione più o meno creativa. Un romanzo messicano, ultimo libro di Jorge Volpi (Bompiani, 2021), rientra appieno in questo bisogno contemporaneo, che chiamerei “documentario”.
È un romanzo non fiction, come ripete l’autore più volte nel corso dell’opera, scritto in maniera chiara e priva di orpelli, figlio del suo tempo, figlio di una riflessione sul mondo contemporaneo e, in particolare, sulla nazione in cui l’autore è nato, vive e opera – il Messico – e in cui il confine tra la realtà degli avvenimenti e la finzione della narrazione degli avvenimenti (da parte dell’autore dell’opera, dello Stato, degli imputati e dei media) sembra quasi impercettibile, confine che proprio perché poco visibile risulta tanto lampante nelle pagine di questo libro. Così, il discorso sulla manipolazione dei fatti, sulla narrazione di eventi, capziosa come ogni narrazione, risulta essere impellente, se non addirittura necessario. Il Messico, pur rappresentato realisticamente, può allora assurgere a valore emblematico di una situazione del mondo contemporaneo, proprio come il caso “Villarta” – il caso giudiziario della vicenda di Israel Villarta e di Florence Cassez, arrestati nel 2005, attraverso una montatura dell’AFI (Agencia federal de Investigatión) con l’aiuto dei media messicani, per una serie di sequestri di persona da loro non commessa – può diventare l’exemplum di un modo di operare frequente in Messico e l’emblema di una situazione moderna, al netto del particolare problema messicano dei sequestri, che trascende la stessa nazione centroamericana e lo stesso fatto di cronaca. Se l’impulso socio-documentaristico risulta palese e fondamentale al contempo (ma proprio per questo per me meno sorprendente), il modo in cui l’opera si dipana non solo offre molti spunti interessanti sulla situazione letterario-culturale della contemporaneità, ma è la cifra stilistica che rende l’intero libro convincente e interessante anche a chi abita oltre l'oceano, in un altro contesto, a parecchie migliaia di chilometri di distanza. Il continuo appello al lettore da parte di Jorge Volpi rientra pienamente in un processo di svelamento che è alla base del rapporto con la realtà concreta e con il realismo letterario proprio del romanzo d’inchiesta della letteratura ipercontemporanea. È un modo personale e comune al contempo di opporsi alla falsificazione propria della realtà mediata, propria di quel mondo che è sempre raccontato, mai vergine, e proprio perché narrato è costruito e sempre soggettivo; è un modo per ottenere autorevolezza, per trovare il consenso nel lettore, perché solo esibendo le artificialità si può sperare di raggiungere una qualche forma di verità, o almeno, si può sperare che la narrazione arrivi al lettore con una certa aura di verità; è, infine, un’assunzione di responsabilità, un metterci la faccia, un dire apertamente “io ho cercato e io ho visto, solo per questo scrivo”. Da questo punto di vista è interessante – per me anche molto suggestivo, considerando il mio percorso personale di studi – il capitolo intitolato Lettere incrociate, che si apre con un lungo elenco di “Io so”, che mi ha subito richiamato alla mente il celebre articolo di Pier Paolo Pasolini.
Eppure, niente di quello che è stato scritto intorno alla letteratura contemporanea sembra adeguarsi a questo romanzo d’inchiesta più di quello che ha detto Walter Siti sul realismo: il realismo è diventato un sufflè pronto ad afflosciarsi in una poltiglia di finzione. Si potrebbe restringere la definizione di realismo, magari anche sostituire il soggetto con il fatto di cronaca specifico, ma l’immagine creata sarebbe sempre la descrizione più accurata di questo romanzo d’inchiesta. E quindi, con le parole di Volpi,
«a chi credere se la polizia non si preoccupa mai di indagare su una sola di queste accuse? Mi azzardo qui a proporre un’ipotesi che – avverto – è comunque una finzione. Una finzione il cui unico merito è la sua logica narrativa». (p. 176).
In una situazione in cui perde consistenza il confine tra la realtà degli avvenimenti e la realtà del racconto fatto degli avvenimenti da parte delle autorità, da parte di quello Stato che dovrebbe essere più oggettivo possibile ma che si rivela essere anch’esso schiavo del soggettivismo, in un mondo in cui la «distinzione tra verità e menzogna diventa irrilevante», ciò che si può fare, ciò che Volpi sembra suggerire, è di ricercare una logica narrativa in ogni narrazione della realtà che ci arriva, di non fermarsi mai alle prime apparenze, ma di sforzarsi di fare una propria narrazione più logica possibile e con più dati alla mano possibile. E, parafrasando le note finali di Volpi, l’unica cosa che si può fare nel mondo contemporaneo se si scrive un libro è di essere quanto più chiari possibili: la realtà è già ingarbugliata di suo.
Giorgio Pozzessere
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