Non appena ho finito di leggere Appunti da un bordello turco di Philip Ó Ceallaigh – la nuova edizione, uscita in aprile 2021, del primo libro pubblicato dalla Racconti edizioni –, mi sono chiesto come dovessi recensirla, se avessi dovuto giudicarla come un insieme – unitarietà dell’opera, stile in generale, ecc. – o se avessi dovuto sviscerare ogni singolo racconto e poi, magari, dare la mia opinione su come ognuno di essi si legasse agli altri. Entrambe le scelte, mi sono detto, vanno bene, anche se entrambe hanno in sé delle problematiche più o meno grandi, soprattutto in ambito teorico. Mi sono chiesto, quindi, se andasse bene dare un giudizio di un’opera che all’interno avesse tante piccole opere autoconclusive. Non è nulla di strano, non è un pensiero rivoluzionario o particolarmente brillante, solo il secolare dubbio se l’intero sia più o meno la somma delle sue parti. Così, eccomi qui, a recensire un’opera (tante opere) – opera che in generale rientra nei miei gusti e che a mio avviso ha delle pretese letterarie in parte soddisfatte – senza, tuttavia, aver preso una decisione, né essermi avviato per una via precisa, anche perché è indubbio che ci siano dei pro e dei contro in entrambi i casi. Al netto delle mie perplessità teoriche e al netto della mia “simpatia” per gli scrittori irlandesi e per il loro modo di raccontare la città – una città mai descritta oggettivamente, ma sempre espressione del modo dello scrittore di significare il mondo e da lui sempre vissuta appieno –, posso dire che quest’opera trasuda esperienza, odora di periferia e di reietti, di quotidianità povera e di un sentimento costante di fine. E posso dire anche che tutte queste cose sono sempre degli ottimi punti di partenza per un’opera letteraria.
Ó Ceallaigh racconta per lo più i margini di un mondo che ha in sé i semi del suo sfacelo, che ha le sue caratteristiche fondamentali nelle case di periferia, negli ingorghi cittadini – in cui ogni persona si ritrova immersa in un nugolo di suoi simili ma in cui inevitabilmente risulta essere sempre sola, come un’isola di un enorme arcipelago – e nei legami sociali forzati, raccontati un attimo prima di sfaldarsi. La città, o per essere più precisi il quartiere periferico, pulsa, è un personaggio vivo in questi racconti. Il quartiere è sempre simile ma allo stesso modo sempre diverso, è parte integrante delle narrazioni, sia quando assurge a coprotagonista – penso al racconto Nel quartiere e ad Appunti da un bordello turco –, sia quando è un luogo da cui scappare nella tremula speranza di una salvezza esistenziale e di un benessere che, comunque, non solo non ci saranno mai, ma addirittura sembra che non ci possano essere – in questo caso penso a Camminando verso il Danubio e a Mentre affondo.
Tutto passa dalla città, in Ó Ceallaigh: la voglia di realizzarsi a livello economico-sociale, le difficoltà proprie di una vita che si fa e che spesso si annulla, le relazioni con le altre persone, persino il desiderio di essere uno scrittore “sporco” e immerso nel mondo (in questo aspetto sembra palese il fatto che l’autore riprenda temi e stilemi propri di Bukowski). Tutto passa dall’esperienza cittadina, tutto si concretizza nella città, che tende ad adeguarsi alla prospettiva del protagonista di turno della storia e, in parte, all’esperienza dell’autore stesso. Ed è sempre una città popolata da reietti, da poveri, una città periferica e marginale. Proprio la marginalità delle situazioni e dei luoghi caratterizza maggiormente questa raccolta, una marginalità di vita che si concretizza quasi sempre in una fine annunciata, in qualcosa che non si compie e che non si potrà mai compiere, in qualcosa che nel momento in cui si ha è già destinato a essere perduto.
E Ó Ceallaigh narra tutto senza la fastidiosa ombra di pietismo – è indicativo che anche il clima sembra non avere pietà per i personaggi delle sue storie: l’afa, il freddo estremo, la pioggia che passa dal buco del tetto, infatti, non servono a creare un sentimento di pietà nel lettore, ma si rivelano come lo scoppio d’avviamento dell’intera narrazione –, senza cadere in quel sentimentalismo spicciolo e facile che stucca; no, lui lo fa con una lucidità soggettiva che non stanca mai. È chiaro in questo il riferirsi a Dostoevskij, ma anche il richiamo velato al modo di narrare di Hemingway e di Carver. Se dal primo prende la situazione cittadina e le situazioni esterne che i protagonisti affrontano – è semplice pensare allo scrittore russo leggendo il racconto Delitto e castigo, ma in quasi tutti c’è tanto del Dostoevskij cittadino e povero, successivo a Povera gente –, dagli altri due, invece, riprende il non detto, il costante senso di fine (reale, sociale o metaforica), che aleggia in queste pagine, e in generale i rapporti interpersonali. Con sullo sfondo un quartiere e una vita sempre in attesa di compiersi realmente. E così la fine di una relazione si racconta nel traffico cittadino e in azioni mancati, in un taxi che sgasa tra le macchine e negli aneddoti di un tassista che non sta mai in silenzio, in un breve incontro in un locale di periferia; mentre la fine di un sentimento si svela per mezzo di un odore nauseante che solo il protagonista della storia riesce a sentire e il cambiamento di un rapporto per mezzo di un «dolcezza» scorbuticamente detto.
Ogni situazione, ogni relazione sembra sempre sul punto di scoppiare, sul punto di spegnersi per sempre e di finire in una bara al centro di quisquiglie condominiali, con la periferia, intesa come margine e come confine delimitante, che rappresenta un intero mondo. In Ó Ceallaigh sembrano essere, quindi, la volontà d’indagare i margini delle cose e la predisposizione a narrare i contorni delle città, della vita di chi è sempre sul punto di non farcela ma che poi riesce sempre a sopravvivere e ad adeguarsi a un mondo altro che non sembra volerlo, il centro d’interesse narrativo. E così il mondo intero per i protagonisti di queste storie risulta essere sempre delimitato dal quartiere, sempre caratterizzato dalle poche relazioni interpersonali degne di nota (ricordo il racconto La bestia), margine anche esse del mondo. E anche quando si cerca altro, inevitabilmente si viene risucchiati, cosa che si concretizza, in quel bel racconto che è Mentre affondo, nel lavoro in miniera.
Questa è una raccolta nata dall’esperienza personale e in cui Philip Ó Ceallaigh, scucendosi una ferita, mostra il suo cuore pulsante al lettore, proprio come fa il protagonista del suo racconto Una performance. In più, lo fa come fosse la storia di un avvenimento subito in prima persona e narrato con gusto, cosa che non guasta per niente.
Eppure, ancora adesso se qualcuno mi chiedesse se ho capito se l’unità, in questo caso, sia più della somma delle sue parti, non saprei cosa rispondere, probabilmente rimarrei in silenzio o cincischierei e borbotterei, senza arrivare a dire nulla. Ciò che posso dire è che Appunti da un bordello turco è una raccolta di racconti degna di nota; e che poco importa se questo secolare problema per me ancora non ha una soluzione.
Giorgio Pozzessere