Il volume de La Nave di Teseo ripercorre la traiettoria del pensiero di Vattimo, raccogliendo i suoi scritti in tre sezioni: Filosofi, Ermeneutica, Pensiero debole.
Si inizia con Essere, storia e linguaggio in Heidegger del 1963, che significativamente inizia domandosi "Chi è il Nietzsche di Heidegger", perché
Si può dire che, dopo Sein und Zeit, è principalmente in dialogo con Nietzsche che il pensiero di Heidegger si viene sviluppando, come attestano i numerosi saggi e i riferimenti a Nietzsche sparsi in tutta la sua opera. Del resto, e ciò non vale solo per Heidegger, Nietzsche è un pensatore col quale, per la forma «provocatoria del suo pensiero, è difficilisso istituire quel rapporto storiografico che si ritiene indispensabile per fare storia della filosofia (p. 51-52).
Col senno di poi, Vattimo sta parlando di Heidegger ma parla anche di se stesso, considerando che proprio attraverso la "presa in carico" delle provocazioni nietzscheane (ma prese con assoluta serietà e non come boutade) il pensiero di Vattimo affronta il superamento della soggettività e della metafisica, cioè del rapporto tra essere ed essente, che resta - e l'Opera omnia qui edita lo testimonia - il "problema" di Vattimo. Il compimento della metafisica, come Nietzsche ed Heidegger hanno mostrato, è ciò che contraddistingue la civiltà contemporanea, incastrata in una dimensione orizzontale, dimentica di qualsiasi dimensione escatologica. «La povertà della nostra epoca consiste nel fatto che i vecchi déi non ci sono più e i nuovi non ci sono ancora».
Partendo dall'ontologia ermeneutica di Luigi Pareyson - lo stesso da cui aveva preso le mosse Umberto Eco - Gianni Vattimo innesta nella visione cristiana del maestro il più inquietante degli ospiti: il nichilismo nietzscheano.
Il volume ripropone Il soggetto e la maschera, uno dei saggi migliori e più lucidi per l'accesso alla filosofia nietzscheana. In quest'opera del 1974, Vattimo legge il pensiero di Nietzsche attraverso il concetto di "maschera", a cui vanno ricondotti i temi della finzione, dell'illusione, della verità divenuta favola. Si va alle radici della scissione tra essere e apparire, che significa cogliere il germe della decadenza, che per Nietzsche - ma anche per Vattimo, sebbene per motivazioni differenti - coincide con il trionfo della ratio, ossia come
fede nella penetrabilità di tutto da parte della ragione e come organizzazione scientifico-tecnica del mondo, sottomette gli istinti vitali immediati alle esigenze universali del sapere; in tal modo, essa assegna ai singoli una posizione precisa nel corso della storia universale, che per la prima volta, ponendo le basi di quello che si chiamerà progresso, viene pensata in modo unitario. Nel quadro fondato e retto da questo egoismo superiore, ognuno si vede assegnato un ruolo (p. 440).
Questa decadenza porterà all'orizzonte umano troppo umano di una civiltà in cui gli dei sono tramontati. È proprio questo percorso porterà ai saggi del Vattimo maturo ad abbracciare un cristianesimo, impiantato sul concetto di caritas e di evento, un «cristianesimo senza verità», come recita l'ultimo saggio della raccolta: Essere e dintorni. "Se dovessi scegliere tra Gesù Cristo e la verità, sceglierei Gesù Cristo", dichiara Vattimo citando Dostoevskij, indicando con questa frase che - al termine del suo percorso filosofico - la scelta del cristianesimo deve essere svincolata dalla strada metafisica, dalla volontà di fondare sistemi e sbandierare certezze.
Questo approdo non sorprende, considerando l'attraversamento dell'orizzonte finito dell'esistenzialismo e dell'ermeneutica, che hanno generato una delle creazioni più note e al contempo discusse del pensiero di Vattimo: il pensiero debole.
Un pensiero debole, che è tale anzitutto e principalmente la causa dei suoi contenuti ontologici, del suo modo di concepire l'essere e la verità, è anche un pensiero che, di conseguenza, non ha più ragioni per rivendicare la sovranità che rivendicava il pensiero metafisico nei confronti della prassi. Ciò però indicherà una debolezza anche nel senso della accettazione dell'esistente e dei suoi ordini dati, e dunque una incapacità di critica sia teorica sia pratica? Detto in altri termini: parlare di debolezza del pensiero significa anche teorizzare una diminuita forza progettuale del pensiero stesso? (p. 1739).
La domanda è la cifra della scommessa di Vattimo: ripensare un'etica ed una prassi, quindi una politica, non più su valori inconfutabili o ideologie, ma riscoprendo - al pari di quanto fatto da Hans Georg Gadamer - il valore della phronesis e della responsabilità. Se questa raccolta si intitola Scritti filosofici e politici, è proprio perché l'età del nichilismo non giustifica per Vattimo alcuna deresponsabilizzazione dell'individuo. Proprio il dissolvimento della realtà, intesa come oggetto immodificabili al di là delle interpretazioni, richiede invece una responsabilità ed un impegno del soggetto (quale soggetto? non di certo quello cartesiano) nella ridefinizione di uno spazio comune e di una progettualità incerta.
Il tramonto della metafisica comporta anche la fine di una religione autoritaria in favore di un cristianesimo che si identifica con il principio della caritas.
Da Nietzsche a papa Francesco pare a molti una parabola azzardata, anche alla scrivente, e la Kehre,(la svolta) di Vattimo, al pari di quella di Heidegger può manifestare una sorta di arrendevolezza, oltre che di debolezza del pensiero, qui peraltro rivendicata.
Tuttavia, la raccolta Scritti filosofici e politici resta un imperdibile pietra miliare per capire di cosa la filosofia abbia ragionato in Italia negli ultimi cinquant'anni, poiché di questo dibattito Gianni Vattimo rimane decisamente un protagonista indiscusso.
Deborah Donato
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