Talento
di Juliet Lapidos
Bompiani, 2021
Traduzione di Giovanna Scocchera
pp. 240
€ 17 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
€ 10,99 (ebook)
Talento è un debutto acuto, irriverente e caustico, popolato da eroine spacciate per scelta, dove gli uomini sono solo un contorno indigesto, eppure decisivi al rimescolamento beffardo degli eventi, soprattutto quando lo stimolo contro le giornate accidiose ha il nome di Freddy Langley, un tempo scrittore di grande fama, morto in un incidente stradale.
Il romanzo di Juliet Lapidos è gremito di domande a cui si può solo rispondere con altre domande, cosicché la storia pur avendo un suo epilogo, lascia questioni irrisolte e in balia di libere interpretazioni.
Ma andiamo con ordine.
Anna Brisker, protagonista del libro, è una dottoranda in letteratura inglese, incline all'apatia e patita di Pop-Tarts, che tenta di studiare da vicino i motivi che condussero Langley a smettere di scrivere prima di morire prematuramente. Tuttavia, l’investigazione universitaria – costituita da strumenti fondamentali quali taccuini mai pubblicati dello scrittore e testimonianze di parenti ancora in vita – anziché aiutare la Brisker al raggiungimento di una tesi degna di un intellettuale accademico, produce una catena di dubbi e questioni senza fine di metacritica.
Proviamo a partire dal primo interrogativo: cos'è il talento?
La Treccani chiarisce: dal latino ecclesiastico Talentum "dono divino", con riferimento alla parabola evangelica nella quale i talenti affidati dal signore ai suoi servi sono simbolo dei doni dati da Dio all'uomo. Al contrario, Juliet Lapidos ci conforta meno, dato che non si focalizza su chi dona talento, ma su come bisogna determinarlo in un mondo dove l'arte del fare è valorizzata dal denaro della fama o dal declino dell’insuccesso, a seconda del tipo di morsa della critica. Dunque, talento è fare senza mai fermarsi, poiché solo facendo si ottiene una ricompensa finale. «Raccogli ciò che vuoi seminare», questo è l’imperativo americano di quel American Dream che condusse alla rovina il Great Gatsby di F. S. Fitzgerald, ma che ha permesso di portare alla ribalta talenti da social, che fanno, producono instancabilmente materiali sonori e visivi il più delle volte privi di genio.
Quantunque il talento fosse riconducibile al verbo fare, come classificare l’attesa dell’ispirazione, tanto cara ai poeti romantici inglesi, e al nostro scrittore d’invenzione Freddy Langley? «Starsene seduto per ore e ore e ore in attesa dell’ispirazione: cos’era se non il niente? Non si poteva certo definire qualcosa. Non era lavoro. E soprattutto non se veniva così facile» (p. 167).
Dunque il talento richiede fatica? E se così fosse, chi è il vero talento affaticato, lo scrittore o il critico?
Anna Brisker ne è certa, il talento è un atto di ribellione alla critica, non solo a quella ritenuta da alcuni letteratura apocrifa, ma soprattutto all’opinione delle persone più care, poiché la protagonista sa perfettamente «quanto può essere spiacevole per uno scrittore trovarsi sotto un bisturi, come un animale sedato su un tavolo operatorio, e non poter protestare» (p. 152), motivo per cui «migliore è il progetto più dolce è la sensazione di consegnarlo all’oblio» (p. 174).
Dunque, il talento è la rivoluzione contro chi lo definisce un dovere e chi spera nell’arte della ricompensa finale? Esso è contro il desiderio morboso di carriera, il bisogno di inquadrarsi, di migliorarsi e di progredire? Qualora dovessero esserci delle risposte affermative, il confine tra critica e letteratura potrebbe cessare di esistere, poiché nessuno deve fare per dimostrare.
Tuttavia, il compito di un dottorando di letteratura è proprio fondato sul fare ricerca e approfondire eventuali aspetti insondabili dell’autore, cercando di collegare ciò che è accaduto «fuori dalla pagina con ciò che è accaduto sulla pagina» (p. 25), costruendo le basi del saggio accademico, per intenderci.
Ciò rende davvero uno studioso e critico un parassita, che si arroga il diritto di studiare degli scrittori e di usare la loro creatività per i suoi fini personali?
La verità è che Anna Brisker rischia di diventare lei stessa insondabile come un autore di grande fama del passato, non riuscendo di fatto ad analizzare nulla, nemmeno con l’aiuto di quel vizio strano di sottolineare le pagine di un libro, che «serve a marcare il territorio: ricordati di questo posto! Poi, in seguito, torni al brano sottolineato e lo usi come vuoi a sostegno di chissà quale tesi. Leggere come mezzo per raggiungere un fine: un saggio critico» (p. 184).
Talento ha tutte le caratteristiche di un campus novel, dove ricerca, pretese intellettuali e debolezze umane si intrecciano fino all'impensabile, tracciando tortuosi sentieri di eventi che si colorano di giallo.
Talento è un’entusiasmante forza di così facile trama, eppure di grande stimolo e dibattito intellettuale, mettendo in discussione ruoli determinati e determinanti nel mondo accademico e letterario, ribaltando certezze e dogmi.
Talento è la goffaggine e l’insicurezza dell’essere umano che tra pensieri cosiddetti elevati, riflette anche su come «ho spalmato la marmellata su un gambo di sedano, rimpiangendo il burro d’arachidi. Si è rivelata una combinazione letale» (p. 154).
Talento è una «riscrittura della parabola dei talenti» (p. 170).
Olga Brandonisio
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