#PilloledAutore - La straordinaria ordinarietà del dolore in Nadia Terranova: "Come una storia d'amore"




“Come una storia d’amore” (Giulio Perrone editore) è una raccolta di racconti di Nadia Terranova che girano intorno a una stella fissa: Roma, una metropoli unica nel suo genere. Dentro di lei avviene ogni giorno l’unione degli opposti, del locale e del globale, del vecchio e del nuovo, in un amalgama di elementi in cui è facilissimo perdersi, diluirsi nel caos, scivolare via assieme al flusso di tutte le cose. Protagonisti delle storie di questa raccolta sono persone che, trovatesi a Roma per volontà o per caso, lottano tra i due estremi, tra l’aggrapparsi a qualcosa che sia per loro un senso, e la tentazione di lasciare quella boa e mescolarsi agli altri, diventando una di quelle milioni di persone che popolano le metropoli e che vivono all’insaputa di tutti. Nadia Terranova afferra queste vite e le fissa con le sue parole, stagliandole a colori nitidissimi su uno sfondo bianco, in cui il bianco è solo l’unione di tutti i colori. Rileggere questi racconti oggi, con le immagini delle metropoli vuote stampate in testa, e la mente che, nei mesi passati, è spesso corsa alle case piene di vita che nessuno può vedere, significa ritrovare con sollievo il proprio dolore negli altri esseri umani; anzi, significa ritrovare un altro, un qualsiasi altro, in cui rispecchiarsi davvero. Per questo motivo, leggendo quest’opera un anno dopo la sua prima pubblicazione, la matita andava da sola, sottolineando i passaggi intrisi di quel sollievo e di quel dolore. Eccone alcuni qui raccolti.

In un settembre esageratamente triste mi ero messa in testa di studiare due cose: l’ebraico e le persone felici. Ero certa di non esserlo mai stata e se invece sì, allora non ero in grado di accorgermene: se quell’infelicità percepita fosse colpa della mia grettezza, della mia incapacità di riconoscere le cose oppure dell’accanimento reale della vita non m’importava più. Se la felicità non mi aveva mai riguardato, tanto meglio: non l’avrei avuta fra i piedi mentre cercavo di scoprirne i dettagli. (p. 30)

Il giorno in cui sono entrata nella lavanderia sbagliata la mia vita era incagliata in una zona morta e quando avevo qualcosa da sbrigare nel mio quartiere la sbrigavo sempre pensando ad altro. A cosa l’ho dimenticato, ma bisognava che fossero problemi senza soluzione, di quelli che ti si annidano nei polmoni o li schiacciano con la pesantezza di un ferro da stiro, bisognava che sembrassero sempre urgentissimi e insieme irresolubili, come quando preghi che ricrescano subito i capelli o hai l’ossessione di avere o non avere fatto quella precisa scelta anni prima. Quella: una qualsiasi. Purché il fantasma non ti lasci andare mai. (p. 48)

Del resto neanch’io me ne andrò. Non ho mai abbandonato né città né case né lavori né uomini. Ho lasciato che ogni situazione dentro cui mi ero ritrovata si staccasse da me con una gradualità che mi sembrava necessaria. Non sono un tipo da lacerazioni, mi dicevo, e intanto scavavo la mia palude. (p. 55)

Guardo fuori dal vetro e mi sbottono il cappotto, il cappello che ho appoggiato allo schienale cade giù insieme alla sciarpa, e nel chinarmi a raccoglierli entrambi mi gira la testa: voler bene alle mie cose posso farlo, ma voler bene alla mia vita, quello proprio non riesco. Ma la mia vita, ora, è tra parentesi. (p. 60)

Esiste davvero, poi, il dolore degli altri? O registriamo la sua esistenza solo quando per semplice casualità sfiora e amplifica il nostro? (p. 72)

Penso con nostalgia a quando avevo certi orizzonti e penso alla città come a un corpo mostruoso che mi ha cacciata fuori o divorata, e in fondo è la stessa cosa. Penso che prima o poi questa città me la toglierò di dosso con un coltello e sanguinante mi metterò sulla strada del ritorno a casa, ammesso che mi ricordi quale sia. (p. 95)



Raccolta dei passi e cappello introduttivo a cura di Marta Olivi 

Qui la recensione al libro di Gloria Ghioni