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"Di luce propria" di Raffaella Romagnolo: il mistero della fotografia e quel destino ineluttabile a cui tutti andiamo incontro

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Di luce propria
di Raffaella Romagnolo
Mondadori, marzo 2021

pp. 264
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Ho scoperto Raffaella Romagnolo nel 2016 con La figlia sbagliata (qui potete leggere la mia recensione), candidato meritatamente al Premio Strega, romanzo di quieta disperazione domestica di cui mi innamorai immediatamente.

La ritrovo cinque anni dopo – in mezzo altri romanzi, tutti di grande successo, tradotti in tedesco, francese, portoghese, greco, arabo – con Di luce propria e riscopro il talento di una scrittrice capace di far dialogare romanzo storico e familiare – seppur di una “famiglia” fortemente atipica, come quelle che Romagnolo ci ha abituato ad amare.

Antonio Casagrande è un orfano genovese, per undici anni rinchiuso nell’orfanotrofio cittadino del Pammatone, dove a causa del suo occhio cieco è costretto a subire le angherie dei coetanei, soprattutto di quel Michele compagno di stanza che usava il coltellino a serramanico “come un pittore usa il lapis, con grazia”.

Le speranze di lasciare l’orfanotrofio e trovare sistemazione presso uno dei tanti contadini che settimanalmente visitano il Pammatone alla ricerca di giovani braccianti sono pressoché inesistenti. Nessuno adotterebbe un ragazzo menomato, quell’occhio di perla nascosto dalla benda sempre sul viso non passa certo inosservato e lo rende un peso, più che un aiuto, agli occhi di tutti.

Ma quando Alessandro Pavia, fotografo di grande talento e minuscola fama, fa il suo ingresso nello stanzone dove gli orfani sono schierati a mo’ di barattoli sullo scaffale di un supermercato, in attesa di essere “selezionati”, è proprio lui che sceglie.
Forse perché Alessandro, grazie al mestiere che fa, sa che un dettaglio fuori posto è più affascinante di un’immagine perfetta, di un’apparente armonia.

È così che Antonio diviene l’aiutante di Pavia: da lui apprende la grammatica, l’amore per l’Italia in costruzione – quel paese che si era appena “fatto”, all’indomani della grandiosa impresa dei garibaldini – e, soprattutto, i segreti della fotografia, allora arte nuova e misteriosa dove chimica, talento e magia si intrecciavano restituendo istantanee in bianco e nero dotate di fascino e inquietudine. Con Pavia intraprende un’opera ambiziosa: fotografare uno per uno i “Mille”, creando un album che – Pavia ne è certo – ogni Comune vorrà conservare nei propri archivi e ogni italiano desidererà sfogliare.

È qui che la dimensione storica del romanzo prende il sopravvento, momentaneamente, su quella personale. La delusione dei garibaldini, uomini semplici che avevano combattuto per un ideale di patria e si erano visti liquidati e cacciati con fastidio e vergogna si riflette nella descrizione dei mancati eroi e della loro reticenza a farsi fotografare:

Al pensiero di quel che è stato, i volontari di Quarto abbassano gli occhi. “Cosa ci sarà mai da fotografare?” pensano. Volevano cambiare l’Italia e l’Italia ha risposto “grazie, ben fatto, adesso però fuori dai piedi”. La festa è finita, si torna a casa. Zappa, bottega, officina. Ufficetto, nella migliore delle ipotesi. Volevano la repubblica e hanno ottenuto un Savoia re d’Italia, in saecula saeculorum. (…) La ferita sanguina, non a tutti va di mettersi in posa. La medaglia non basta, la pensione – misera – non basta. Nella capitale, poi, non ne parliamo. Se solo potessero, quelli con la camicia rossa li metterebbero ai ferri(…) “Mazziniani di merda” mormorano nelle segrete stanze del Governo. “Repubblicani di ‘sto cazzo”. (p. 49)

In Di luce propria, gli avvenimenti storici accompagnano e favoriscono l’evoluzione personale dei protagonisti: la Storia con la maiuscola, quindi, è al servizio della storia umile, minuscola, singolare.
Proprio l’impresa grandiosa dell’album dei Mille permetterà ad Antonio di scoprire un segreto terribile su di sé: l’occhio di perla, inerte e inutile all’apparenza, possiede in realtà un dono intollerabile. Quello di osservare l’epilogo tragico delle persone che si presentano di fronte all’obbiettivo.
Una qualità con cui è difficile convivere e che Antonio sceglierà a più riprese di assecondare od ostacolare, vivendola come un destino ineluttabile o un elemento prezioso da mettere al servizio della propria evoluzione umana.

È come se il romanzo ci presentasse allora una verità difficile da accettare quanto insopprimibile: il destino di ognuno di noi è scritto, nessuna possibilità di cambiarlo e, al contrario, ogni tentativo affannoso di scombinare le carte, mutare rotta, non fa che rendere l’ineluttabilità della nostra sorte ancora più crudele. Antonio lo scopre a sue spese, durante i moti crudeli di Milano, nel 1898, quando una protesta pacifica viene sedata nel sangue dal generale Bava Beccaris.

Cosa non darebbe per avere un’immagine di se stesso bambino. A guardarla con l’occhio del fotografo, a etichettarla con la didascalia giusta, forse il destino gli apparirebbe leggibile, lampante. “Eri già tu, davvero”. “Tutto è già scritto” intende. E questo affannarsi a cercare il proprio posto nel mondo, la sensazione che la vita sia un continuo partorirsi, e partorirsi con dolore, non è che un’illusione. (p. 193)

Il destino di Antonio è la fotografia, mestiere piovuto dal cielo con l’arrivo al Pammatone di Alessandro Pavia, e subito trasformatosi nella missione di una vita: nel congelare istanti storici e intimi di donne e uomini comuni o eroici, Antonio scopre la sorte che gli è toccata in dono, quella capacità di vedere “oltre” che è crudeltà e libertà al tempo stesso.

Nel romanzo storico, nel romanzo di formazione, si innesta anche il romanzo familiare: non una quindi, ma tante le dimensioni e le chiavi di lettura di questa storia incredibile. Di luce propria è il racconto di personaggi indimenticabili, ognuno custode di un mondo compiuto che, da solo, potrebbe occupare un intero romanzo.
Antonio Casagrande, il suo occhio terribilmente magico e la sua condanna. Il suo talento dietro la macchina fotografica e l'incredibile dedizione a un’ostinata idea di famiglia.
Il quasi babbo, Alessandro Pavia: ubriacone, innamorato delle donne, scorbutico e sboccato. Ma con grande senso civile, fedele repubblicano, romantico nella sua passione genuina per la politica e nella sua affezione per il piccolo Antonio.
Caterina, la donna amata, forte e indipendente, fragile e impaurita, che accoglie Antonio e le sue atipie, che per prima gli crede, lo accetta, lo accompagna nella sua evoluzione e nell’accettazione di sé.
E ancora, il vivace microcosmo di Borgo di Dentro, la famiglia perbene di Domenico Leone, l’amicizia con Primo, il bambino che non dorme mai e passa le notti in mezzo al bosco, che gli fa compagnia per le strade di Genova nel pomeriggio affollato dei funerali di Mazzini.
E infine, Madama Carmen, la quasi madre, il modello più sbagliato possibile, maîtresse genovese con l’ossessione per i soldi, eppure amorevole, generosa, capace di proteggere Antonio e di aiutarlo a spiegarsi l’inspiegabile, proprio come una madre.

“Senti me” rispose lei restituendo la stretta. Poi però non disse nulla. Alla luce tremolante i suoi occhi sembravano bottoni. Gli lasciò la mano, la intrecciò all’altra, si passò i palmi sul viso, emerse di nuovo. “La morte non esiste” disse.

“Non dite assurdità. E poi io la vedo!”.

“Finché sei vivo, sei vivo. È una maledizione sufficiente.”.

In quell’attimo, un lampo squarciò il cielo nero. La cucina brillò di una luce fredda. Forse era un effetto del temporale, oppure era il suo occhio pazzo, ma in quel momento Antonio la vide nuda, e più che nuda. (…) Vide la parte soffice e segreta, che ogni mattina il mestiere riveste di marmo e metallo, e solo a tratti affiora baluginando, visibile solo a chi sa guardare oltre, dentro le ossessioni di Madama Carmen, la smania per il mare, il lutto pervicace. E intorno alle membra non più giovani, al ventre rilassato, scintillava un contorno di luce viva, come un velo da sposa, un guscio trasparente di energia purissima. (p. 108)

Leitmotiv del romanzo, come suggerisce il titolo: la luce. Al centro del complicato meccanismo del fotografare, lampo improvviso nell’occhio malandato di Antonio per mostrare il destino altrui, la luce è la straordinaria compagna di una vita, alleata preziosa per compiere la missione, apparentemente impossibile, di ogni esistenza umana: congelare la vita.

Della fotografia ama proprio l’immobilità, che è una cosa impossibile nella vita, quella sì una vera magia, perché la vita va, il tempo passa, le cose cambiano, le persone muoiono, la vita non sta mai ferma e il bello è coglierla di sorpresa e inchiodarla lì, a se stessa, per sempre: Primo Leone che a nove anni soffia nella tromba di Alessandro Pavia. Famagosta sensuale e condannata, certo, ma così splendente e viva, con i seni in boccio e le labbra arricciate in un bacio. E Caterina affacciata sulla sponda del Naviglio Maggiore, Caterina alla terrazza di via Meravigli, Caterina in un campo di erba medica e trifoglio. Per sempre. Caterina in un eterno mezzogiorno di timo e lavanda. (p. 239)

Barbara Merendoni