Alla conquista di un West perduto: la vita come gioco d' azzardo in "Cavalli elettrici" di Shannon Pufahl


Cavalli elettrici
di Shannon Pufahl
Edizioni Clichy, luglio 2021

Traduzione di Giada Diano

pp. 416
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)




Chi leggerà Cavalli elettrici troverà tanto di quel sogno - per tanti solo "cinematografico" - americano: il selvaggio West delle campagne del Kansas e delle spiagge della California; ma anche il fascino ambiguo e pericoloso di Tijuana e le illusioni perdute di Las Vegas. Il pericolo e l'illusione, infatti, sono il tema centrale di questo folgorante esordio di Shannon Pufahl, saggista e insegnante universitaria alla Stanford University, alla prima prova come romanziere. Pericolo, illusione ma anche "attraversamento del confine", dicevamo: non solo quello  tra San Diego e Tijuana, oggi la frontiera più trafficata al mondo, ma il confine di se stessi, della morale, dell'amore. Cavalli elettrici è un po' tutto questo, attraverso le avventure parallele di due personaggi riuscitissimi: Muriel e Julius. Il loro rapporto, sono cognati, mai esplicitato, di brevi confidenze e di intima e intuitiva comprensione crea la polarità attraverso cui si sviluppa la trama. I capitoli, infatti, benché scritti sempre da un narratore esterno, seguono il punto di vista dell'uno o dell'altro. 

È il 1956, Muriel ha 21 anni quando arriva a San Diego insieme al marito:

Le mattine a San Diego hanno un odore particolare, l'aria dell'oceano resa dolciastra dai fumi delle navi cisterna. Lee e Muriel sono tra le molte migliaia di persone che arrivano ogni mese dal Pacifico, mariti e mogli ma soprattutto uomini soli, accesi dalla promessa dell'Ovest e della propria sopravvivenza. In generale è una città per uomini, pensa Muriel, fatta di marinai e navi scure e vortici di petrolio nei porti. (p.18).

Muriel abbandona il Kansas per seguire Lee in California. In realtà, e sarà uno dei temi sotto traccia di tutto il romanzo, il progetto iniziale era andare a vivere  in California con Lee e con Julius, il fratello di lui, che avevano in mente di costruire una gran casa con i soldi del congedo preso dalla Marina. La notte trascorsa insieme a Julius, a giocare a carte, a ubriacarsi e a parlare, rimane un archetipo, un luogo accogliente  («Muriel si era sentita parte di una profonda comprensione» p. 22) a cui entrambi i personaggi tenderanno nei loro inquieti vagabondaggi. Dopo quella notte trascorsa con il futuro cognato, Muriel decide di sposare Lee

Perché era orfana e sola, ma anche per Julius, che le aveva fatto intuire che il mondo era più grande di quanto avesse immaginato, e perché Lee, nell'amore per suo fratello, le appariva più stimolante al tempo stesso. (p. 24).

 Quando arriverà in California, però, Muriel scoprirà che Julius se n'è andato. È il primo di tanti mancati incontri, fra Muriel e Julius, ma anche tra Lee e Muriel, che si vivono accanto senza comprendersi pienamente, tra Julius e Henry, ma soprattutto dei personaggi con se stessi, con i propri sogni irrisolti. Una metafora di questo continuo venir meno del senso, della completezza, è la cavalla che Julius regala a Lee e Muriel e che scappa, poi riappare, poi scompare di nuovo, fino all'epica fuga finale. Non è la storia di un triangolo amoroso. Non uno convenzionale, almeno. Julius è omosessuale e si innamora di Henry, con cui condivide una balorda vita da baro a Las Vegas e la ricerca di questo amore lo porterà oltre il confine degli States, a Tijuana, lo porterà a cercare presagi, a leggere bigliettini a cercare in altri corpi le tracce dell'unico uomo ricercato. Eppure, il legame con Muriel, che proprio attraverso la ricerca - anch'essa senza lieto fine - di Julius, capirà chi è veramente e quali sono i suoi desideri, è il tema che maggiormente mi ha stregato in questo romanzo. Entrambi giocano, Muriel di nascosto fa scommesse sui cavalli, Julius a carte e la dimensione del rischio, dell'imprevisto, del perdere tutto e dell'accettare anche le vincite più copiose come una gratuità a cui non legarsi è ciò che unisce questi due personaggi. Ma anche il rapporto tra i due fratelli, Lee e Julius, è presentato con fine indagine psicologia e grande lirismo dalla Pufahl:

Sa di essere stato amato più di Lee, come succede ai bambini problematici, che sono fonte di preoccupazione e adorati allo stesso tempo. Lo capisce all'improvviso. C'è una gioia terribile in questo, e un senso di vergogna familiare, come se essere amati fosse un dono che non porta con sé un senso di sicurezza, ma la necessità di fare ammenda. Suo fratello doveva averlo capito già allora, già nell'infanzia, e se l'era tenuto per sé, e non c'era da stupirsi che avesse voluto sposarsi e costruirsi una vita senza quel fardello. Lee forse lo aveva attribuito alla morte del padre o a quella notte a Okinawa, quando Julius aveva fatto a botte con l'uomo che era stato il suo amante, o al congedo che ne era seguito. Ma adesso Julius si chiede se la vera ragione non sia stata questa ingiustizia, il fatto che l'amore era stato indirizzato su di lui e non su Lee, il fatto che lui lo aveva sciupato, mentre Lee si teneva strette con facilità le altre cose positive nel mondo. (p. 343).

«I cavalli non tengono fede alle speranze che riponi in loro» dirà Sandra (personaggio su cui non anticipo nulla, per non rovinare una sorpresa nella trama) e questa frase si adatta perfettamente a Julius e a Muriel, i veri cavalli elettrici,  irrequieti, mai domati, in continuo movimento e tradimento delle persone che avevano riposto fiducia in loro. Muriel nell'amore «voleva qualcosa di cui non aveva mai sentito parlare» e questa frase, come tante altre della Pufahl, infuoca la pagina di questo romanzo.

La prosa della Pufahl è di certo il punto forte di questo romanzo. È straordinaria, evocativa, struggente senza essere mai barocca. L'autrice ha la capacità di usare le parole come bacchette magiche che illuminano di senso la mente del lettore. L'unico appunto a questo bel romanzo è il sovrappopolamento delle comparse. Non abbiamo personaggi secondari (se non Sandra e la madre di Muriel, solo nei flashback) ma una infinità eccessiva di comparse, che spesso vengono designate semplicemente come "un uomo", "un ragazzo", "il vecchio". Questo aspetto e  il vorticoso - benché funzionale alla trama - movimento di Julius e Muriel provoca saltuariamente un effetto di ipertrofia descrittiva che lasciano in bocca la pienezza di un'abbuffata.

Ciò non toglie che Cavalli elettrici lascia il segno nel suo lettore e lo lascia con quella narrazione epica che i grandi narratori americani sanno avere. 

Deborah Donato