La stupidità strategica.
Come costruire successi fallimentari o evitare di farlo
di Giorgio Nardone
Garzanti, 2021
pp. 112
€ 13,00 (cartaceo)
€ 8,00 (ebook)
Già, proprio così. Sedetevi dunque sulla vostra panchina preferita con la vostra copia del libro e in ideale compagnia del vostro amico Forrest Gump, e tenetevi pronti ad arrendervi pagina dopo pagina all’evidenza di questo mantra di memoria cinematografica. Perché qualora aveste ancora dei dubbi in proposito, non c’è davvero più stupido di chi sia intenzionato a esserlo e agire come tale. Giorgio Nardone, da parte sua, non ci gira troppo intorno: a dispetto di studi e riflessioni illustri e secolari, si tende ancora a credere del tutto a torto che la stupidità sia un difetto genetico, una tara innata, una carenza individuale. Eppure non c’è nulla di più errato, dal momento che la stupidità non è il contrario dell’intelligenza, bensì, tutt’al più, l’opposto della saggezza. Pertanto, se non è vero che si nasce stupidi, è purtroppo del tutto possibile diventarlo. Come? Beh, proprio qui sta il busillis, dal momento che gli stupidi più magnifici sono proprio coloro che si ritengono dei campioni di acume, sagacia, furbizia, savoire faire; degli ottusi in piena regola, insomma, ma spesso, a conferma di quanto la tendenza alla stupidaggine sia subdola e perfida, anche individui dotati di eccellente buon senso che finiscono col perdere la partita contro la propria rigidità intesa come resistenza al cambiamento.
Mai perseveranza – è il caso di dirlo – fu più diabolica: come ben spiega Giorgio Nardone, il maligno si insinua laddove spesso e volentieri ci pare di essere più virtuosi, e dunque, esempio degli esempi, tutte le volte in cui ci illudiamo di tenere stoicamente fede alle nostre idee e convinzioni scambiando il nostro mero immobilismo per ammirevole fermezza. Il risultato? Diveniamo la quintessenza della presunzione più ottusa e dell’ottusità più presuntuosa, incapaci come siamo di compiere i primi passi sulla via della vera illuminazione, ovvero di ammettere di avere torto, di criticare in modo costruttivo il nostro pensiero e la nostra condotta, di migliorare idee e azioni di conseguenza e in base alle circostanze.
Tutto qui? Sì e no. Nel chiarire il concetto di “stupidità strategica”, ovvero di quella stupidità messa in pratica dal soggetto nella convinzione illusoria di essere o divenire così facendo la migliore versione di sé, l’autore approfondisce la faccenda argomentandone l’eziologia e tracciando l’identikit generale della persona “strategicamente stupida”, la quale è sempre (nell’ordine) serenamente priva di dubbi, abile nel ridurre la sofferenza, incapace di reale empatia e compassione nonché inadatta al dialogo e votata alla proclamazione. Ma non finisce qui, perché a seguire, uno dopo l’altro, ecco sfilare i profili più comuni degli stupidi eccellenti, quelli con cui tante e troppe volte ci capita di avere a che fare ma anche – ahinoi! – quelli che spesso e inconsapevolmente siamo: l’incompetente saccente, il presuntuoso snob, il beato ignorante, l’ideologo inamovibile, il logico sprezzante, il fanatico fervente, il manipolatore subdolo, l’empatico camaleontico, il critico insaziabile, l’insoddisfatto perenne e il megalomane. Un cast, insomma, ben assortito proprio come una scatola di cioccolatini (ancora Forrest, ancora sua madre), ma a cui è pur sempre possibile far fallire il provino e non affidare la parte: gli antidoti al veleno esistono, per fortuna, e l’autore non manca di indicarli in un apposito capitolo ricordando che la loro applicazione richiede grandi sacrifici in termini di:
«costante vigilanza sulle trappole che le nostra stessa natura dispone sul nostro cammino, di esercizio assiduo di flessibilità mentale e assunzione di più e diversi punti di vista, di gestione dell’angoscia esistenziale evitando di rifugiarsi in verità protettive, di capacità di essere umili, comprensivi ed empatici nei confronti dell’altro, di controllo dei propri moti interiori, di spirito di abnegazione e rinuncia ai propri vantaggi personali in nome di quelli comuni» (p. 82).
Anche per via della sua mole esigua (poco più di un centinaio di pagine) e della sua prosa semplice e comprensibile, priva dei tecnicismi del gergo psicoanalitico (ma fitta di rimandi in corpo di testo), quello di Giorgio Nardone potrebbe sembrare un libricino da leggere in tutta fretta e magari nel più totale straniamento, tra un sorriso e una risata per certe descrizioni che senza dubbio faranno sovvenire alla memoria tante persone di propria conoscenza. Epperò sarebbe un errore sentirsi del tutto al sicuro, perché come insegna La trappola per topi di amletica memoria ciò che accade sulla scena sa essere capace di trafiggere la coscienza e l’amor proprio dello spettatore come in un tiro al bersaglio operato da arcieri addestrati e provetti. È proprio il caso di dirlo: a meno che il lettore in questione non sia evidentemente, irrimediabilmente e platealmente stupido, gli sarà impossibile non rinvenire nella propria condotta qualche traccia della stupidità così ben esplicata dall’autore. Poi, quando questo accadrà, si consoli grandemente: la sua agnizione sarà l’ottimo punto di ripartenza per lasciarsi progressivamente alle spalle ogni zavorra caricata da cotanto male. E se la bibliografia in coda gli offrirà ulteriori spunti di approfondimento, la copertina del libro gli suggerirà la metafora vincente di questo processo liberatorio: ammettere la propria stupidità sarà come aprire la propria gabbia mentale, e consentire finalmente il volo libero della propria intelligenza più alata.
Cecilia Mariani