Se la storia della famiglia di Demond non era poi così diversa dalla mia, significava forse che stavamo rivivendo sempre la stessa storia, da una generazione all'altra? Significava forse che i giovani neri avrebbero continuato sempre a morire, che sarebbero rimasti solo i bambini e pochi vecchi, come in guerra? (p. 75)
Roger, Demond, Charles, Ronald, Joshua: sono cinque i giovani uomini che popolano il memoir di Jesmyn Ward, e che vengono così eternati con le sue parole. Morti in giovanissima età (attorno ai vent'anni), ognuno di loro ha lasciato ricordi, ha tracciato storie, insomma, non è passato invano. Difficile, semmai, è rendere loro giustizia in un libro, ed è per questo che Jesmyn Ward ci ha pensato a lungo, per poi decidere di omaggiarli in un tributo sentito, arrabbiato, duro e al tempo stesso colmo di amore.
Le cinque vite vengono ripercorse nei loro tratti salienti in altrettanti capitoli intitolati ai defunti, di cui si ricordano anno di nascita e di morte; a queste sezioni, si avvicendano importanti intermezzi, in cui Jesmyn Ward ripercorre il proprio stare nel mondo, dalla nascita nel 1977 fino al suo presente. Eppure questi non sono capitoli intitolati a un "io", ma a un "noi", perché c'è una diffusa coralità nelle esperienze di Jesmyn: per chi è nero, vivere in Mississippi (e, in generale, negli stati del Sud) richiede una notevole resilienza, sacrifici, sopportazione delle umiliazioni e dei pregiudizi. A questo si lega, infatti, la dinamica di repulsione e attaccamento di Jesmyn Ward (e di molti dei suoi personaggi) al Mississippi:
Come facevo, allora, a sapere che la mia vita sarebbe stata questa: desiderare con tutta me stessa di andarmene dal Sud e andarmene continuamente, per poi tornare sempre, richiamata da un amore così intenso da soffocarmi? (p. 198)
Raccontare «il fardello di questa storia marcia e schifosa» (p. 16) è necessario, non tanto per debellare il dolore - quello non se ne va, ce lo conferma l'autrice verso la fine del memoir -, ma per portare una testimonianza. Questa drammatica «lista che ammutolisce» (p. 15) racchiude omicidi, suicidi, incidenti mortali. I cinque ragazzi non sono morti per malattia, ma si è trattato sempre di uno strappo improvviso, a cui hanno fatto seguito telefonate, lacrime, cerimonie funebri, profondo senso di ingiustizia. E l'autrice immagina che, in punto di morte, abbiano capito qualcosa di più, che, veggenti, abbiano compreso fino in fondo ciò che noi non possiamo capire. Ad esempio: «Alla fine, le nostre vite coincidono con la nostra morte. C.J. lo comprese d'istinto. Io non ho parole» (p. 131), o ancora: «Ronald aveva visto tutto, e questo lo aveva sepolto» (p. 183).
Per chi se lo stesse chiedendo, in questo memoir tornano molti dei temi che abbiamo letto nella trilogia di Bois Sauvage. Vi rientrano eventi particolarmente traumatici, come la drammatica esperienza di nuotare in soffitta per sopravvivere, durante l'uragano Katrina, o le lotte di cani (come in Salvare le ossa). Accanto a questi, troviamo tessere abituali, piccole cose, come cucinare enormi pentole di gamberi da sgusciare, il caldo del bayou, alcol e droga come temporanee evasioni da un presente che non soddisfa,... Viene spontaneo domandarsi quanto di autobiografico risuoni nel raccontare di madri giovanissime, incapaci di prendersi cura dei propri figli, che dunque li affidano alla propria madre (la sorella di Jesmyn Ward ha avuto un figlio a soli tredici anni e lo ha lasciato alla loro madre). Così le figure di padri che sono ben poco presenti nella vita dei loro figli (cosa che accade in tutti i romanzi di Bois Sauvage) potrebbe rifarsi proprio all'esperienza autobiografica dell'autrice. Nonostante certe rispondenze sembrino facili, giocare con le tessere delle autobiografie degli autori è estremamente rischioso, e dunque fermiamoci ancor prima di cominciare; possiamo solo aggiungere che l'attaccamento ai fratelli (Leitmotiv in La linea del sangue e in Canta, spirito, canta) è qualcosa che emerge fortemente anche in questo memoir, e che incanta.
Certamente possiamo leggere Sotto la falce per cercare in nuce temi, ambientazioni, influenze socio-culturali dei romanzi di Jesmyn Ward, eppure vi consiglio di non farlo: leggete questo memoir con la disposizione di chi ascolta storie ed è pronto a lasciarsi coinvolgere, ad arrabbiarsi e a soffrire per le profonde ingiustizie che ne emergono. A chiudere il libro, troviamo un'altrettanto sentita e sofferta testimonianza dell'autrice: in Il mio cuore in briciole (testo uscito su La Lettura del Corriere della Sera il 25 ottobre 2020), Jesmyn Ward si congeda dal marito, scomparso proprio di Covid, agli inizi della pandemia. Come scrive l'autrice, «il dolore plasma croste simili alle mie cicatrici e poi assume forme nuove e dolorose nel saldarsi. Fa male in modi diversi», e forse la scrittura, almeno temporaneamente, riesce a tamponare il bisogno di provare a esprimersi e di fermare il tempo, di fare i conti con «la violenza», che «può essere improvvisa, imprevedibile e grave» (p. 63)
GMGhioni