Guarda il libro: su IBS su LaFeltrinelli su Amazon |
Sono le 5:45 del mattino, anche se il cielo sembra quello delle ore più buie della notte, e mi ritrovo seduto davanti al gate 36C dell’aeroporto di Malaga con un piccolo libro in mano – Il sole dell’Andalusia, uscito per Garzanti circa un mese fa, un’antologia di saggi di Federico García Lorca tratti da Impresiones y paisajes. Lo sfoglio come un talismano, ripensando a quello che ho visto e a quello che ho fatto negli ultimi tre giorni, cercando nelle pagine di Lorca o in quelle del curatore, Matteo Lefèvre, un amuleto, una malia che permetta di concentrarmi e di organizzare un resoconto, se non bello, che sia quanto meno sintetico e che abbia un po’ di logica o una linearità cronologica o tematica. Mi rendo conto, forse anche a causa della mente assonnata, che non riesco a fare nulla di creativo, niente che calchi lo stile decadentista e immaginifico proprio del poeta spagnolo, nulla che richiami la prefazione puntuale del curatore. Così, chiudo il libro e poi anche gli occhi: nel buio si ha sempre l’impressione che la mente viaggi più rapida, e che i pensieri siano più ragionevoli. Mi dico che forse la cosa meno stupida da fare è iniziare semplicemente dall’arrivo e poi proseguire riportando in maniera fedele quello che è accaduto e quello che ho provato, anche perché, come mi diceva spesso un grande italianista citando Catone, rem tene, verba sequentur.
1. Chiunque giunga con l’aereo a Malaga può notare già dalla fase d’atterraggio come l’Andalusia sia una terra antica, consumata dal tempo e dal sole, aggrappata con una mano stanca alle tradizioni e al rapporto tragico con la vita, con i monti della Sierra Nevada che «sorgono con dolci ondulazioni da rettile» (p. 35) e con le distanze tra un medio-grande comune e un altro a cui un cittadino italiano non è per nulla abituato. Si percepisce subito che qui lo spazio è una presenza costante e concreta, che è una delle caratteristiche fondamentali di questa regione, una di quelle che nasce con la terra stessa e si lega con le costruzioni e i pensieri dell’uomo che la abita. Il barocco, la maestosità delle costruzioni, il vuoto e il pieno delle architetture della regione ne sono solo la concretizzazione più immediata. Lo spazio e le distanze grandi, mai però fuori portata come quelle americane, sono la peculiarità di questa parte della Spagna, e se si vuole capire realmente questa regione bisogna percorrerle con l’auto più che con il treno, bisogna attraversare le grandi superstrade che sono circondate dalla vegetazione mediterranea, dal terreno spaccato dal sole e dai monti che lambiscono l’orizzonte.
No, non sono i fiumi, seppure presenti anche in notevole quantità (alcuni di questi sono anche maestosi – il più importante è Guadalquivir, uno appartenente al gruppo di quelli che sfociano nell’Atlantico e non a quello che raggruppa i fiumi con la foce nel Mediterraneo), a caratterizzare questa parte dell’Andalusia che è il centro dei saggi di Lorca. No, non è l’acqua, ma la terra, il rapporto che questa ha con il sole, con i colori e con i suoni a rendere unica questa regione. Le prime cose che sorprendono, uscendo dall’aeroporto e trascorrendo qui anche solo pochi giorni, sono la luce solare che inebria e acceca, che rende i colori della regione brillanti e le abitazioni quasi terree, e i dì che in estate sembrano non finire mai, e che sembrano essere eterni nella loro staticità e nella loro tranquillità. È una sensazione che, in parte, si ha anche nel sud Italia, specialmente in quei paesini dell’entroterra pugliese, siciliano o sardo in cui tutto sembra dilazionato e in cui ogni cosa pare rimanere quello che è, nonostante tutto cambi in continuazione, nonostante la globalizzazione e la modernità li stiano corrodendo internamente. L’Andalusia dai racconti degli andalusi è cambiata molto; dicono che, commercializzandosi e piegandosi alle regole del turismo sfrenato, abbia perso parte della sua originaria bellezza, caratterizzata dal connubio tra sacro e profano, tra vita e morte, tra pieno e vuoto. Non so, sinceramente, se questo sia vero – penso che ci sia un fondo di verità –, tuttavia l’impressione che si ha dall’esterno è che questa sia una terra rimasta, per quanto possibile, vera, con dei posti quasi incontaminati, e con delle zone in cui ci sia un sentimento quasi ieratico con il territorio, con la dominazione araba e la tradizione cattolica. Malaga, seppure abbia ancora qualche residuo di un passato profondamente legato alle sue tradizioni e alla sua terra, non sembra conservare questa religiosità.
2. La città di Malaga ha una sua particolare bellezza ibrida e vitale. Il sole in estate colora il piccolo centro storico di ocra e fa risplendere gli intarsi lignei di molte delle sue costruzioni, mentre l’architettura racconta la sua storia e l’atmosfera che la abita senza alcuna nostalgia per il passato. In questa città non si percepisce la continuità dello scorrere dei periodi storici; passeggiando tra le vie del centro storico o della periferia non si ha quel sentimento del tempo caro a Ungaretti: il passaggio dall’antico al nuovo sembra essere avvenuto sempre in maniera netta e ogni periodo storico sembra aver lasciato un numero più o meno grande di orme, solamente un piccolo segno della sua presenza. Evidentemente, questa non è una città che poggia la sua bellezza sulla sua storia. Dell’epoca romana, infatti, non rimane che una parte del teatro, sovrastato dalla muraglia dell’Alcazaba. Ed è così che ogni costruzione diventa il simbolo della tendenza alla commistione e alla sovrapposizione delle epoche; ed è così che ogni costruzione può e deve essere ristrutturata, magari anche lasciata inconclusa.
E questo si vede bene con la Cattedrale, che, edificata dove un tempo si trovava la moschea più importante della città, è il simbolo maestoso e incompiuto della religiosità spagnola barocca. Appare caratterizzata dalla commistione di tendenze artistiche: ogni periodo ha aggiunto qualcosa alla costruzione, senza però forgiarla mai del tutto. Più che di un periodo storico quindi, la cattedrale è la concretizzazione della grandezza, è il simbolo dell’importanza che ha avuto per questa città, e per l’intera Andalusia, la religione cattolica, dalla Reconquista alla fine del Novecento. Adesso, invece, persino i riti della Settimana Santa – anch’essi contraddistinti dalla maestosità e dalla grandezza, e un tempo radicati nella religiosità e sentiti pienamente dai fedeli – hanno sempre più il sapore mesto di un folklorismo commerciale.
Il centro storico di Malaga è piccolo e la fase moderna sembra aver conquistato il porto e la maggior parte della città con i suoi pavimenti di pietra bianca, i suoi bar, le sue discoteche e i locali che, dando le spalle alla Farola – l’unico faro della Spagna con un nome femminile – guardano l’acqua calma del porto aspettando che il tramonto immerga la città «nell’oro e nel tulle rosa e viola» (p. 56). Ma se il porto acquista un’atmosfera affascinante, è l’Alcazaba, Alhambra in minore, che al tramonto riesce ad attirare su di sé tutti gli sguardi e a spingerli, attraverso un gioco di colori e di luci, sia verso il castello sia verso la Cattedrale.
Ma ciò che colpisce veramente di questa città è l’incredibile sua vitalità. C’è sempre qualcosa da fare, c’è sempre gente, c’è un vitalismo tragico che si percepisce in ogni vialone, in ogni costruzione, in ogni pub del centro e della periferia. C’è un senso di tragicità vitale che non si trova facilmente in altri posti, che è parte integrante del suo fascino ed è ciò che rende questa meta tanto ambita dal turismo estivo giovanile.
Il clima è molto caldo e si fonde con le abitudini delle persone. Se si è fortunati, in estate, la mattina può capitare di essere svegliati da una strana condensa, molto simile a una fresca nebbiolina, chiamata dagli andalusi “tarò”. Questa è provocata dall’evaporazione dell’acqua marina per il troppo caldo e scende leggera sulla città una volta raggiunti i monti, rinfrescando gli animi e i corpi dei malagueni. Almeno, questo è quello che mi hanno detto i cittadini di Malaga la mattina del mio terzo giorno in Andalusia, poco prima di partire alla volta di Granada.
Giorgio Pozzessere
(continua sabato prossimo....)