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#CriticaLibera - Ode a Lady Day: a 62 anni dalla scomparsa di Billie Holiday

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Billie Holiday
William P. Gottlieb, Public domain, via Wikimedia Commons

 E l'attacco che diventa epiteto:

Lady sing the blues
She's got them bad
She feels so sad

And wants the world to know
Just what her blues is all about
Quando, nel 1956 a New York, Billie Holiday incideva Lady Sings The Blues, la prima traccia dell’album omonimo, la sua voce aveva già quell’inflessione roca e malmessa di chi trasporta sulle spalle il peso di una vita difficile. Di lì a tre anni, infatti, questo gravoso bagaglio e un'ipotesi di cirrosi epatica avrebbero messo fine alla sua vita. Parlando di Holiday si tende spesso a idolatrare il suo talento in un modo un po’ mainstream, riflettendo sul valore della sua voce in quanto strumento piacevole alle orecchie di chi ascolta, in quanto giovane donna rovinata da un mondo che per lei ancora non era pronto ma che è stato abbastanza lungimirante da inghiottirla, con troppa veemenza. Ma ci sono tante vie per parlare di colei che era, alla nascita, Eleanora Fagan, nata a Philadelphia nel 1915 e divenuta una leggenda assoluta della musica occidentale. 

La scorsa domenica è stato l’anniversario della sua morte, avvenuta il 17 luglio 1959. E ogni occasione è effettivamente valida per celebrare il suo talento. Lo faccio oggi con voi attraverso alcune pubblicazioni significative e che mi hanno aiutata in questi anni, in quanto ammiratrice della sua musica e curiosa ricercatrice della sua storia personale, a inquadrare la persona di Lady Day (soprannome datole dal suo grande amico sassofonista Lester Young) come artista e come donna. 

Partendo da alcuni scritti autobiografici, non si può non partire dall’autobiografia a quattro mani scritta da Holiday e William Dufty. Tanto si è scritto di questo testo, in parte perché molti hanno messo in discussione il contributo stesso di Holiday, reputandolo effettivamente nullo e additandolo come una frode. Il risultato tuttavia è un resoconto di piacevolissima lettura, simile nella sua forma una conversazione a due (a tre, considerando Dufty) con il lettore). Edito in Italia per Feltrinelli, La signora canta il blues (1956) ricalca fin dal titolo le tappe salienti della vita e della carriera di Lady Day, intitolando ogni capitolo rispettivamente come alcuni tra i suoi brani più celeberrimi. 

On the Sunny Side of the Street, sul lato soleggiato della strada… luogo in cui Billie tentava costantemente di stare, sia metaforicamente che moralmente, con non poca difficoltà, spesso fallendo. Il modo in cui Billie viveva la sua vita era costantemente segnato dalle persone della musica che le stavano attorno; la madre indigente e vogliosa di una fetta del suo successo, i compagni del momento, i manager, i proprietari dei club. Una vita dura per un talento incontaminato.

Esiste poi uno studio più recente, pubblicato in Italia da Il Saggiatore semplicemente come Billie Holiday (in originale, Billie Holiday. The Musician and Myth), una biografia strutturata firmata dal John Szwed, professore di musica e storia del jazz alla Columbia University. Il ritratto che fa di Lady Day è sottile e avvolgente; Szwed osserva la sua esperienza di vita da una prospettiva meno narrativa rispetto al racconto autobiografico del 1959. Uno sguardo moderno su un’icona che ha segnato un genere musicale.

Un testo più manualistico, ma estremamente interessante è poi un volume di Angela Davis, Blues Legacies and Black Feminism (1998), che analizza tre icone femminili della musica nera di inizio e metà Novecento, “Ma” Rainey, Bessie Smith e, appunto, Holiday. Mettendo a tema le influenze delle une sulle altre, Davis osserva poi la “big picture” che queste tre donne incredibili formano nella storia della musica, del femminismo e della blacknessIn questo testo, è presente un commentario analitico e acuto (d’altronde, con Angela Davis è impossibile rimanere delusi) di un brano che è stato particolarmente significativo nella produzione di Holiday ed è passato alla storia per tutto ciò che rappresenta (aggiungo un consiglio "visuale": si parla di questo pezzo musicale in una recente serie di Netflix intitolata, This is Pop, precisamente nella puntata che tratta di musica e movimento sociale, "Cosa può fare una canzone?"). Mi riferisco a Strange Fruit, un durissimo brano sui linciaggi dei lavoratori neri negli stati del Sud. Scritto dal compositore Abel Meerpol, Holiday debuttò con Strange Fruit nel 1939 al Cafè Society, uno dei primi locali newyorkesi aperti a un pubblico bianco e nero. Il testo non ha bisogno di spiegazioni; uno storytelling crudo sulle note di una melodia pacata e struggente:

Southern trees bear a strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root
Black bodies swingin' in the Southern breeze
Strange fruit hangin' from the poplar trees


Pastoral scene of the gallant South
The bulgin' eyes and the twisted mouth
Scent of magnolias sweet and fresh
Then the sudden smell of burnin' flesh


Here is a fruit for the crows to pluck
For the rain to gather
For the wind to suck
For the sun to rot
For the tree to drop
Here is a strange and bitter crop

La canzone scritta da Meerpol non denuncia di per sé la cattiveria delle azioni intercorse, bensì mette l'ascoltatore davanti a un dolore dalla profondità inquantificabile. Con la sua prima performance di Strange Fruit, Billie Holiday lasciò il pubblico attonito, per un momento incapace di applaudire. Il brano diventò poi l'ultimo pezzo fisso di ogni suo set. 
È interessante, seppur non sorprendente visto il messaggio che il brano trasporta, quante volte Strange Fruit sia stato riproposto da performer differenti nella storia della musica, da Nina Simone a cantanti più contemporanee. Qui trovate una versione molto recente di Dominique Fils-Aimé, giovane artista del Quebec, che testimonia ampiamente quanto questo brano sia ancora basilare per la storia black e quanto la sua reiterazione lo renda senz’altro più potente.

Un ultimo testo che sento di voler menzionare è un fumetto su Billie Holiday a cura di edizioni SUR e realizzato dagli argentini José Muñoz e Carlos Sampayo, con una prefazione di Nicola Lagioia, il quale, nella prefazione, pronuncia limpidamente: «L'America su cui Billie Holiday chiuse gli occhi per l'ultima volta era una terra violenta, ferocemente ipocrita, in cui la questione razziale non era ancora esplosa in tutta la sua vergognosa evidenza» (prefazione, p. 2). E suo malgrado, è proprio così. In una serie di tavole in bianco e nero, i due ingegnosi fumettisti rappresentano la vita di Lady Day con una puntualità emotiva sorprendente. Il risultato è una storia per immagini che centra esattamente la forma e i colori della vita di Holiday. Da un lato, il nero dell’abuso, della faticosa risalita da una Baltimora dei quartieri più poveri agli scintillanti e fumosi club newyorkesi, dell’affetto mancato e tanto necessario. Dall’altro, il bianco della voce, di una ritmica indisciplinata eppure perfettamente controllata, della ricerca di quel senso puro e immacolato che lei stessa non ha mai trovato.

Lucrezia Bivona