di Bruno Larosa
Ronzani editore, maggio 2021
pp. 352
€ 17,00 (cartaceo)
€ 6,49 (ebook)
Guardò Roberta e, come un ossessionato, ripeté: «A nessuno importa se l'accusa a Nato è vera; sono tutti convinti che lo sia. Ti rendi conto che la verità è già stata creata, accettata, condivisa, e che quindi sarà difficile contrastarla?» (p. 63)
Fortunato Ardore vive in Aspromonte, terra con una sua bellezza, ma piagata dalla 'ndrangheta. La gente del posto, vuoi con il silenzio o con un basso profilo, vuoi supportando le attività criminose, cerca di sopravvivere. Fortunato ha sempre avuto una vita tranquilla: si occupa delle terre e della locanda a conduzione familiare lasciatagli dal padre e non ha mai pestato i piedi a nessuno. Lo stupore è quindi immenso quando una mattina la Polizia irrompe in casa sua e lo dichiara in arresto con l'accusa di essere un potente capo della 'ndrangheta locale, così furbo e influente da essere rimasto fuori da ogni tipo di indagine. Non ci sono precedenti a suo carico, le prove sono molto circostanziali eppure Fortunato entra in un durissimo e ingarbugliato scontro con lo Stato, fatto di processi, rinvii, magheggi poco chiari e una solida resistenza al riconoscere di aver fatto un errore. Al suo fianco, il cugino Guido Castiglione, avvocato di peso di Napoli ma originario della Locride che sa bene come muoversi in quell'ambiente senza restare impantanato nelle spire delle due grandi istituzioni a confronto: la criminalità organizzata e lo Stato.
In alcune narrative sulla criminalità organizzata si mitizza l'istituzione portando il lettore o lo spettatore a fare il tifo per chi, in realtà, è il cattivo. Tutti ritenevamo don Vito Corleone dalla parte della ragione; nessuno ha mai augurato la prigione a Nucky Thompson di Boardwalk empire per quanto potesse essere malvagio e corrotto. Questa predisposizione non è solo data dal classico fascino esercitato dal male, ma anche dal fatto che, in queste narrative, la mafia è vista come un'alternativa possibile a uno Stato corrotto a sua volta oppure ingiusto. Le motivazioni dei criminali non sono mai pure o idealistiche, seguono quasi sempre il loro tornaconto, ma è meglio avere a che fare con loro che con lo Stato che è ormai marcio fino alle fondamenta.
In Fortunato ci troviamo di fronte a una narrativa in parte tangente a questo filone. Tangente perché se è vero che tutto comincia con un'accusa di associazione alla 'ndrangheta, è altrettanto vero che della criminalità organizzata noi vediamo molto poco e non abbiamo modo di conoscerne i meccanismi interni; ma se c'è una cosa contro cui sbattiamo continuamente è la cecità e l'incapacità dello Stato e della Magistratura di far fronte alla minaccia criminale. In preda alla disperazione e pur di portare a casa qualche risultato che faccia sentir loro di aver fatto qualcosa, qualunque cosa per combattere effettivamente la 'ndrangheta, sono pronti a sostenere fino alla fine la colpevolezza di un innocente. Per tutta la lettura ci si sente quindi quasi soffocare dall'esasperazione per i continui rinvii, per la burocrazia elefantiaca e per il più elementare rifiuto di vedere la realtà per quella che è: che la Polizia ha commesso un errore e non vuole mollare il punto. Esasperazione che è ben espressa da Roberta, la moglie di Castiglione, che da esterna non riesce a comprendere il perché di tante complicazioni.
«Voi e il vostro processo, sembra che giochiate con i soldatini», riprese. «Un uomo sta in carcere a marcire da mesi e voi giocate come dei bambini. E quei giudici? Com'è possibile che non si accorgano che le voci che ho ascoltato sono diversissime da quelle di Fortunato? Le hanno udite? Per farlo basta mettersi una cuffia e ascoltarle, confrontandole.» (p. 287)
Chi per imperizia, chi per corruzione o paura, chi per una stanchezza ormai incistata per una lotta che non sembra avere alcuna possibilità di vittoria, tutti gli attori di questo processo sembrano solo creare ostacoli e montare un caso dove in realtà un caso non sembra esserci perché basterebbe davvero poco per valutare la colpevolezza o meno di Fortunato. Ci troviamo di fronte a "quello stesso Stato che non ha mai perso lo scettro del potere, dimostrando che i cittadini non sono mai stati sovrani" come si riflette a inizio del romanzo.
Sulla discreta pletora di personaggi che abitano il romanzo – non tutti sviluppati appieno come nel caso di Roberta che è l'incarnazione del lettore con i suoi dubbi e le sue esasperazioni ma che avrebbe meritato un arco narrativo suo oppure Pietro, il figlio di Guido e Roberta, che ha la funzione di suscitare alcune delle molte riflessioni filosofiche del padre – Guido Castiglione fa la parte del leone. Fortunato, di cui nel corso della storia cogliamo l'ironia del nome, compare in maniera abbastanza marginale ma significativa. È l'incarnazione della gente semplice che combatte come può la criminalità organizzata e cerca solo di passare la propria vita indenne: con un forte senso della famiglia, l'ancoraggio alle tradizioni e la fede nella religione che sfuma più spesso in superstizione. La sua funzione è significativa perché nonostante lui e Guido Castiglione siano cugini, non si potrebbe immaginare una maggiore distanza tra le due figure.
Incontriamo Castiglione reduce da un lungo periodo di riposo a seguito di un processo finito male e che decide di rientrare in campo per i legami di famiglia e per l'appello disperato di Fortunato, ma ci accorgiamo subito di come l'avvocato non sia per nulla piegato da quanto gli è avvenuto. Castiglione è collerico, portatore di una certa hybris intellettuale nel momento in cui si considera Sherlock Holmes e il suo associato come l'umile Watson, disincantato nei confronti dell'istituzione per la quale lavora e cova una certa dose di ipocrisia: originario della Locride vive e lavora da sempre a Napoli, ma quando si confronta con il giovane magistrato Shiller che dichiara di voler abbandonare la Calabria, lui insiste perché rimanga, facendolo quasi vergognare di volersi dare per vinto quando invece lui ha lasciato il territorio da molto tempo. La sua distanza dalla famiglia è rimarcata in modo netto dai continui riferimenti classici e letterari che lui fa per descrivere anche le situazioni più banali come l'arrivo di suo cugino Antonio che viene paragonato a un passo dei Promessi Sposi. Nel complesso può risultare difficile trovare Castiglione un personaggio simpatico, ma chi può affermare di aver provato questo sentimento per Nero Wolfe? Chi, in tutta coscienza, non si sente a volte irritato da Sherlock Holmes? Guido Castiglione si inserisce bene nel panorama di investigatori e tutori della legalità e della morale – non sempre della legge stabilita da uno Stato a catafascio – con i suoi difetti, nessuna idealizzazione, nessun tentativo di rendersi accattivante, ma capace di andare dritto al punto come nessuno intorno a lui sembra essere in grado di fare.
Tutta la parte processuale è sicuramente – si spera – portata all'estremo per ovvie esigenze narrative, ma l'opera riesce a suscitare quel senso di impotente esasperazione nei confronti delle istituzioni che combattono la battaglia contro la criminalità organizzata e sembrano non riuscire ad arginarla perché i tentacoli sono arrivati ovunque. Puoi solo sperare che ci sia un Castiglione pronto a intervenire in casi di palese ingiustizia, ma anche in quel caso, anche quando la tua innocenza sembra provata, non sperare che la tua vita possa tornare quella di un tempo.
Giulia Pretta
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