Tra favola, realtà e fantasia: lo storytelling come riscrittura del reale nel primo romanzo di Quentin Tarantino, "C'era una volta a Hollywood"




C'era una volta a Hollywood
di Quentin Tarantino
La nave di Teseo, luglio 2021

Traduzione di Alberto Pezzotta

389 pp.
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)





Quentin Tarantino è senza dubbio uno dei registi americani dallo stile più deciso e più riconoscibile, in patria e all’estero, ed è forse sorprendente che il suo canone consti soltanto di nove film, finora (perlomeno per come li considera lui, accorpando cioè i due volumi di Kill Bill!): un progetto ben definito, che ha sempre puntato sulla qualità più che sulla quantità, riuscendo a inanellare capolavori che, uno dopo l’altro, hanno costruito una poetica personale unica nel panorama cinematografico. E se Tarantino ha dichiarato che il suo nono film sarà anche l’ultimo, questo non significa che il mondo dovrà fare a meno di lui e della sua visionarietà, visto il suo esordio nel genere del romanzo. Che dimostra che, quando si ha un talento unico per lo storytelling, l’abbandono del mezzo visuale per la parola scritta è una sfida difficile ma tutt’altro che impossibile.

Non è un caso, peraltro, che il primo romanzo di Tarantino prenda le mosse dal suo nono film, C’era una volta… A Hollywood (il titolo del libro omette i tre puntini), quello che più di ogni altro, tramite la sua descrizione del “sogno hollywoodiano” degli anni Sessanta e Settanta, ci racconta qualcosa di lui, dei miti della sua infanzia, del clima culturale in cui è cresciuto, e dei film che hanno plasmato il gusto e l’immaginario del piccolo Quentin: il libro da una parte ci conferma l’importanza di questo retaggio per il regista, che approcciandosi al gran finale della sua carriera ritorna al punto di partenza, ma dall’altro approfondisce ancora di più questo mondo, prendendosi le soddisfazioni che il mezzo visuale non concedeva.

Ritroviamo i protagonisti Rick Dalton, attore di film western televisivi al tramonto della sua carriera, e Cliff Booth, la sua controfigura a dir poco antieroica, ma le loro storie si alternano a un florilegio di digressioni su fatti avvenuti su set dove i protagonisti hanno lavorato e lavorano, trame di film, liste infinite di attori, attrici, registi, agenti, cantanti, mescolando personaggi veri a nomi inventati, e inserendo perfino una menzione di se stesso, in qualità di regista di un film che, però, non esiste. Rivediamo quindi nel libro la stessa tendenza del regista di “riscrivere la storia”, che anzi trova, nella forma scritta, ancor più spazio di manovra nel mescolare realtà e finzione.

Il libro dunque sfrutta al massimo la struttura a capitoli, incentrati ciascuno su un personaggio diverso, sia per creare un’ambientazione hollywoodiana in bilico tra realtà e fantasia, ma anche per dare spazio e respiro agli indimenticabili personaggi che costituiscono un’altra caratteristica della produzione filmografica del regista. Come il film, il libro non si abbandona alle scene di sangue che caratterizzano il regista, anzi rimuovendo perfino il gran finale del film; ne risulta una narrazione che, sul grandioso sfondo hollywoodiano di cui sopra, proietta con efficacia personaggi molto umani, fragili, realistici, che trovano nella forma scritta l'habitat ideale per regalarci racconti del loro passato. Indimenticabile il capitolo in cui vediamo Sharon Tate appena ventenne arrivare a Los Angeles in autostop per tentare la fortuna come attrice, o ancora le storie sul passato di Cliff Booth nella Seconda guerra mondiale, che spiegano la sua crudezza e la sua insensibilità di fronte alla violenza, e ovviamente l’approfondimento del personaggio di Charles Manson, che sul film fa solo un paio di apparizioni, e non viene mai inquadrato apertamente come a sua volta vittima del sogno hollywoodiano.

Alla potenzialità digressiva ed episodica della forma scritta, Tarantino ci aggiunge, di nuovo, il suo personalissimo stile da sceneggiatore, e se nelle descrizioni dei movimenti compiuti dai personaggi si nota un po’ lo stile da “didascalia”, e ci si immagina quasi il fotogramma corrispondente, come se stessimo davvero leggendo una sceneggiatura, nei dialoghi Tarantino crea degli scambi di battute fenomenali, taglienti e pungenti, che fanno da perfetto complemento alle digressioni e alla prosa riflessiva e quasi poetica – ma sempre asciutta – con cui viene costruita l’ambientazione.

E forse è proprio nella costruzione di questi personaggi che il senso del libro si compie. Tarantino costruisce infatti il suo sfondo tra realtà e fantasia, anzi, tra realtà e illusione, per creare un mondo ambiguo che i suoi personaggi navigano senza speranza di approdo; eppure, allo stesso tempo, con la passione verso il cinema che infonde in ogni riga, Tarantino sembra in qualche modo voler implicare che forse c’è una realtà positiva dietro le illusioni degli anni d’oro del cinema americano, al di là della pulsione verso “la carriera” che sembra non dar pace al povero Rick Dalton. Se è vero che il sogno hollywoodiano con cui Tarantino è cresciuto è fugace e, come peraltro il titolo suggerisce, non è nulla di più che una fiaba che oggi, in un’industria cinematografica molto più disillusa, non viene più creduta da nessuno, fare cinema rimane “il lavoro più bello del mondo”, come realizza Dalton alla fine del romanzo. Perché è l’unico lavoro che ti consente di vivere in un mondo altro, il mondo delle storie. Il mondo che Tarantino, tramite i film e ora con la forma del romanzo, ha dimostrato essere il suo habitat naturale.

Marta Olivi