Il mio anno di riposo e oblio
di Ottessa Moshfegh
Feltrinelli, 2018
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 224
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Il sonno continuo, l’incapacità
di trovare senso alla vita quotidiana, l’assenza di forza di volontà e di
motivazione. Sintomi di un disagio psicologico a cui normalmente si risponde
esortando chi ne soffre a riprendere le forze, suggerendogli di attivarsi, di
stare all’aria aperta, di fare attività fisica e di prendersi cura di sé, o
ancora di cercare aiuto professionale. E se invece si assecondasse l’istinto
all’immobilità? Alla vuotezza, all’oblio?
Questa è la premessa di Il mio anno di riposo e oblio, il terzo romanzo della
versatilissima scrittrice Ottessa Moshfegh, e il più celebre in Italia. Nel
quale l’autrice, in poco più di duecento pagine, costruisce un mondo tanto
surreale quanto familiare e plausibile. Ambientato a New York a cavallo del
2000, la protagonista decide di abbandonare un’esistenza senza senso e appesantita
dal trauma della perdita dei genitori grazie a una delle vie di fuga più
utilizzate dagli americani: i sonniferi. Oppiacei, barbiturici, ansiolitici, farmaci
ottenibili con una facilità inaudita. Tra il beato sonno delle pillole e una
scorta di film in cassetta facenti parte della cultura pop americana, la
protagonista spera di azzerare la propria individualità, diventare una tabula
rasa, una delle tantissime persone anonime che affollano New York e che le passano accanto ogni giorno, prive di
storie, di passato, di carattere, di connessioni, e di tutte quelle cose che possono arrecare
dolore.
Eppure, non funziona. Nei
primi mesi della “terapia”, che coincidono anche con la prima sezione del
romanzo, la più lenta, la vecchia vita continua a tornare: Reva, amica dell’università
della narratrice, la perseguita con i suoi problemi, e ritornano i ricordi su
Trevor, ex ragazzo della narratrice, a dir poco problematico. Insomma, il sonno
non la ristora, e i farmaci, com’era prevedibile, smetteranno anche di fare
effetto. Che fare, dunque?
Se l’inizio del romanzo è
lento e sembra quasi procedere avviluppandosi su se stesso, senza andare da
nessuna parte, il piano narrativo della Moshfegh si rivela solo nella seconda
metà del libro, sebbene è solo con l’ultima pagina che il romanzo davvero si
compie. Si dipana pian piano una lenta ma inesorabile trattazione del tema
della morte, che infesta ogni pagina, non solo tramite le storie della morte del
padre e della madre della protagonista, ma anche nel capitolo dedicato al
funerale della madre di Reva, unico personaggio ricorrente di tutta l’opera,
estremamente attaccata alle sciocchezze della quotidianità, ideale contrappunto
della protagonista. Ed è proprio in questa atmosfera, in cui la vita sembra
semplicemente un negativo della morte, un breve periodo di presenza nella condizione
di assenza che è la normalità della vita, che si configurano gli ultimi tre
mesi dell’anno di riposo e oblio della protagonista. Un vero oblio, un riposo
scelto, programmato e strutturato per essere un’assenza, sì, ma fortemente
voluta. Perché se l’assenza è la condizione normale di una vita condannata a
non godere mai di alcuna pienezza, tanto vale scegliere con cura le nostre
assenze, i nostri vuoti, i nostri spazi rigenerativi, ciò che dà un senso alla
nostra vita. E l’unico modo per farlo, è svegliarsi.
Marta Olivi
Marta Olivi