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Quando il lutto diventa un'ombra scura che accoglie e protegge: "Il buio non fa paura" di Pier Lorenzo Pisano

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Il buio non fa paura
di Pier Lorenzo Pisano
NN Editore, 2021

pp. 175
€ 16,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)



 


Per Gabriele l’attesa della mamma è gioco, serenità, certezza. Anche quando comporta l’immersione nel buio, in uno dei molti nascondigli possibili all’interno della casa dove vive con i genitori e i due fratelli. Il faggio che vigila sulla dimora è nume tutelare, punto di raccordo tra le generazioni, visto che ha assistito alla crescita dei genitori e adesso a quella dei loro figli. È lì che la mamma, ancora piccola, si arrampicava agile, lampo tra le fronde, quando aveva incontrato quello che sarebbe diventato il suo futuro marito. È lì che i bambini portano le loro offerte propiziatorie quando la donna, improvvisamente e senza spiegazione, una sera scompare.
Quello che l’autore rappresenta nella sua fiaba nera sarebbe un mondo senza tempo, se alcuni indizi non ci permettessero di collocare la narrazione negli anni del secondo dopoguerra, con ancora i segni delle bombe sugli edifici, la memoria viva della presenza tedesca e la radio che parla degli americani.
La prospettiva di Pier Lorenzo Pisano è quella del regista, che ci mostra ora i campi lunghi con le figurine scure dei bambini che corrono nei campi o tra i viottoli del paese, ora uno zoom estremo che ci riporta alla loro focalizzazione del reale, alla portata ancora limitata del loro sguardo.
Al contempo, il tratto della sua penna rivela una capacità straordinaria di dire il lutto attraverso la descrizione dei gesti dei personaggi, l’esplorazione della loro fisicità nello spazio di una casa che sembra sempre più vuota e più cupa e di un paese che mormora e fissa. Nei giorni che seguono un funerale senza corpo, il padre e i suoi figli sprofondano in un silenzio troppo denso e pieno di pensieri inespressi, incapaci di far fronte all’accaduto: 
non c’è niente da dire, niente di cui si può parlare, le parole sono state bandite da questa casa così, istintivamente, sono scomparse dopo il funerale, […] cose da dire ce ne sarebbero, tantissime, però restano tutte dentro, restano nelle unghie dei bambini mangiate fino a fare uscire il sangue. (p. 44)
Ciascuno reagisce a suo modo: il padre, annientato, che spacca la legna come un automa perché “è il bosco che gliel’ha portata via, dal bosco viene solo la morte” (p. 56) e quindi il bosco deve essere distrutto, cancellato; i bambini che corrono senza fermarsi mai, perché fermarsi vorrebbe dire pensare, capire, accettare.
Nel momento della sparizione della mamma, si configura una lotta tra il buio e la luce, in cui il primo terrorizza e attrae al tempo stesso, e rischia di risucchiare Gabriele se non sta attento, ben ancorato alle cose concrete. La stessa casa in cui la famiglia vive è contesa tra il sole e le tenebre e la simbologia sembra univoca, mentre sul villaggio iniziano ad accumularsi paure e sospetti. Solo il giorno porta infatti la chiarezza, mentre la notte è associata dal pensiero collettivo alla morte e ne diventa foriera. Con il progredire della narrazione, però, si assiste a un rovesciamento della polarità morale tra i due opposti: se infatti il buio accoglie e consola, è il grembo materno a cui fare ritorno, la luce diventa il luogo in cui si dispiegano la violenza e la barbarie della comunità, in cui si assiste allo stravolgimento di lineamenti altrimenti serafici, brillano le armi ed emerge la sete di sangue di chi, accecato, non vuole che il sangue del mostro. 
Il sole inspessisce i tratti e li rende più duri, e c’è un luccichio nascosto negli occhi, una punta di ferocia, le braccia più larghe, i passi più svelti. […] La luce forte che investe tutto si riflette dorata sulle facce e le rende tutte uguali, tutte giallastre, tutte cattive. (p. 153)
La foresta infatti è il luogo delle paure primigenie, il crogiolo oscuro delle fiabe, quello in cui ora sembra annidarsi una creatura che uccide barbaramente gli animali e che gli uomini del villaggio devono stanare in una violenta battuta di caccia. Ma Gabriele, che si avventura da solo nel bosco, scopre invece qualcosa di inaspettato: che la bestia fatta d’ombra, altissima e sofferente, tremante nelle tenebre, è in realtà accudente, amorosa, pronta a stringerlo in un abbraccio. Per il bambino la conclusione, inaccettabile per qualsiasi adulto, è in realtà ovvia: 
è così, quella dev’essere sua madre, certo, il mostro è comparso dopo che se n’è andata, è la cosa più sensata, è la cosa più bella del mondo pensare che mamma è ancora viva, e ha bisogno di lui. (p. 62-63).
È quando i bambini piangono e si disperano, quando ne hanno più bisogno, che la creatura arriva ad accoglierli nelle sue lunghe braccia fatte d’oscurità. È solo quando qualcosa li minaccia che lei scatta per difenderli a ogni costo e da ogni minaccia (“soltanto col buio lei ci verrà ad aiutare”, p. 122), tornando dall’abisso in cui è sprofondata, forse anche dalla morte.
Pisano ci mostra nella sua opera d’esordio, finalista al Premio Calvino 2020, una visione dell’infanzia che non è solo il momento della libertà e della leggerezza, ma anche quello di confronto con l’oscurità, con le asperità dell’età adulta verso cui ci si incammina. E tuttavia l’infanzia appare anche quell’ultimo stadio della vita in cui si vede davvero, al di là delle paure e dei pregiudizi, si resta aperti all’imprevedibile, financo all’impossibile. Laddove i due piccoli di casa, Gabriele e Matteo, riescono a riconoscere la madre nella sua nuova forma, già il fratello più grande, Giulio, in quell’essere vede solo il mostro da eliminare, e in questo fa propria la prospettiva del padre e del mondo adulto. Per poter ritrovare la madre, come i suoi fratelli, Giulio deve regredire, ritornare sui suoi passi, immergersi nell’oscurità e tornare quindi all’infanzia che crede e trasfigura il reale. L’autore non propone però una soluzione univoca e definitiva al tema del vuoto, della perdita: ci mostra infatti che per il figlio maggiore questo ritorno è anche il passaggio necessario per poter poi andare avanti, nella consapevolezza che il fantasma di chi non c’è più può diventare un qualcosa che rischia di paralizzare l’esistenza. Solo che Gabriele non è pronto a fare questo passo ulteriore, a lasciar andare, e fa dunque una scelta diversa da quella del fratello maggiore – non meno sofferta, e non meno giusta.
L’elemento di forza del romanzo è di trattare il lutto e la durezza della crescita non solo in chiave metaforica, ma attraverso una narrazione concreta, materica. La mamma fatta d’ombra che esce dal bosco si innesta sul dolore radicale, viscerale dei figli e del marito, che viene trattato dall’autore con la massima serietà e che colpisce con forza il lettore, soprattutto perché ciascuno dei personaggi lo manifesta a modo proprio, unico, e ciascuno cerca una propria via di uscita, o di fuga. L’intensità del sentire dei protagonisti è tale che il libro non si può leggere tutto d’un fiato, va digerito un capitolo alla volta, e fino alla fine, anche alla fine, non si trova davvero pace. Perché pace non è data di fronte a una mancanza che non si può colmare, ma soltanto affrontare.

Carolina Pernigo