Promesse
di Bryan Washington
NN, 2021
Traduzione di Emanuele Giammarco
pp. 352
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Amare una persona significa lasciare che cambi quando ne ha bisogno. E lasciare che se ne vada quando ne ha bisogno. E questo non la rende meno casa. (p. 207)
Mi piace pensare che esista un filo rosso molto spesso a legare le case editrici indipendenti e che, talvolta, si creino interessanti sinergie per dare vita a progetti e spunti. È senza dubbio il caso della pubblicazione di Promesse, il primo romanzo di Bryan Washington: a portare in Italia questo giovane e talentuoso autore texano era stata lo scorso anno Racconti edizioni con la potente raccolta d’esordio Lot nella traduzione di Emanuele Giammarco (tra i fondatori di Racconti); alla prova del romanzo è NN, altra realtà editoriale indipendente di grande pregio, ad acquistarne i diritti per la pubblicazione, chiamando appunto Giammarco per la traduzione. Che ci sia stato uno scambio, una serie di suggerimenti fra le due case editrici è plausibile e nel promuovere l’uno non mancano mai di citare anche l’altro e l’editore di riferimento. Una cosa piccola, penserete, ma a mio parere non così scontata e un buon esempio di connessioni culturali.
Giovanissimo (classe 1993), Bryan Washington in appena un paio d’anni e con due libri all’attivo si è imposto sulla scena letteraria nordamericana e quasi immediatamente internazionale, ottenendo riconoscimenti prestigiosi come il Dylan Thomas e l’O. Henry Prize, oltre alle numerose segnalazioni su riviste quali New York Times, Vanity Fair, Washington Post, Time, solo per citarne alcune. Il suo contributo nella creazione di un nuovo canone letterario che tenga conto della cultura afroamericana è apparso fin da subito evidente e si inserisce al cuore del dibattito contemporaneo su questione razziale, privilegio bianco, gentrificazione, identità. Alla questione razziale, racconti e romanzo di Washington intrecciano riflessioni su omosessualità, relazioni, rapporto fra culture e comunità diverse, luoghi che cambiano, immigrazione, possibilità e molteplici altri spunti.
La prosa – resa straordinariamente da Giammarco – è forse il tratto più immediatamente riconoscibile di Washington, ciò che rende magistrale la narrazione: una lingua viva, dai dialoghi immediati, pulsante, cesellata per la storia da raccontare. In Promesse, romanzo stratificato e intenso, la lingua scava nella quotidianità, i dialoghi si intrecciano a pensieri e messaggi su whatsapp, le frasi sono brevi, spesso affilate come lame. E alla fine della lettura ci si rende conto anche questa volta che era l’unica lingua possibile a restituire la complessità della storia, le esitazioni dei protagonisti, i silenzi, le parole che mancano, i sentimenti da elaborare. Al centro, una relazione che pare sfilacciarsi, la mutevolezza dei sentimenti e le distanze che talvolta si creano:
Solo perché qualcosa non funziona non significa che sia rotto. Devi avere voglia di aggiustarlo. Ci deve essere la volontà. Allora dimmelo, ho detto io. A te va di aggiustarlo? Credo sia quello che sto cercando di capire, ha detto Mike. (p. 97)
Una separazione, all’inizio della storia, che porta Mike a lasciare Houston per fuggire a Osaka e assistere il padre morente, con cui da anni non aveva più rapporti. Lascia a casa Benson, il compagno, e la distanza che negli anni si è insinuata fra loro diventa ora fisica, concreta; da Osaka arriva invece dopo tanto tempo la madre di Mike, costernata per la partenza del figlio e che si trova a condividere lo spazio con un estraneo. Sono Mike e Benson, alternandosi, a raccontare questa storia, intervallata da flashback sul proprio passato, ognuno col suo carico di incomprensioni, solitudini, abbandoni. E nella cucina, della casa di Houston con Benson e Mitsuko, in quella del bar di Osaka con Mike e il padre, si consuma la parte più importante della storia, si svelano i sentimenti, si mostra il dolore, ci si avvicina e allontana. La cura nella preparazione di un piatto, i pasti consumati insieme, la quotidianità dei gesti, sono la parte più intima e vera di questi rapporti complicati da parole mancate e incapacità di comprendersi davvero, da antichi segreti e rifiuti.
La questione razziale, si diceva, pervade la storia anche quando non è il fulcro della narrazione e Washington abilmente restituisce sulla pagina le complessità e le numerose implicazioni quotidiane di un pregiudizio, di una discriminazione che contamina ogni aspetto della quotidianità, a partire dallo sguardo dell’altro, che in una famiglia afroamericana borghese trova una nota stonata, perché «siamo neri. E quello cambia tutto». Di minuscoli, fondamentali, dettagli su ciò che realmente sia il tanto discusso privilegio bianco, è disseminata la storia, come di altrettante riflessioni su questa discrepanza e sul pregiudizio razziale, che si insinua subdolamente nelle pieghe del quotidiano e nei gesti solo all’apparenza minimi. Un pregiudizio radicato, orribile anche quando non sfocia in aperta violenza. È Benson, educatore afroamericano e malato di HIV, ad offrirci questo punto di vista sulla storia, da tutta la vita abituato a percepire questo pregiudizio sulla propria pelle.
Sentirsi diversi, non accettati, anche quando questo ha a che vedere con la propria sessualità: tanto Benson quanto Mike hanno alle spalle una storia famigliare di rifiuto e allontanamento o, nel migliore dei casi, di negazione. Ancora una volta, il talento di Washington sta nel rappresentare una realtà assolutamente verosimile, in cui la reazione al coming out non si traduce in poli opposti rappresentati da assoluto sostegno o violento ostacolo, ma in una negazione e indifferenza che forse ferisce ancora di più.
Entrambi, seppur diversi, cresciuti in famiglie disfunzionali, adulti segnati da una storia di mancanze, alcolismo, abbandoni, violenza, che faticano a venire a patti con il passato e a credere nel cambiamento:
Quelle non erano le stesse grida che avevo sentito a casa con mamma. Quelle non erano le stesse mani che mi aveva messo addosso, chiedendomi che avevo fatto per essere così moscio. Quelle non erano le stesse urla che aveva rivolto a mia madre, quando aveva iniziato a mettere da parte più soldi di lui, quando aveva cominciato a scalare i pioli che portavano fuori dalla sua vita. Quella che aveva dimostrato a Kunihiko era tenerezza. Assomigliava parecchio all’amore. (p. 156)
È una storia di gesti, si diceva, più che di parole, perché tante volte le parole ingannano o non sono quelle giuste, quelle più adatte a spiegare l’amore che muta, si trasforma, a raccontare le scelte che si fanno per salvarsi – come la madre di Mike, Mitsuko, personaggio evanescente e meraviglioso – e allora sono i gesti a colmare le distanze:
Mike non mi ha mai promesso niente. Le cose le ha sempre fatte o non fatte. Ha sempre sostenuto che le promesse non sono che parole, e che il significato delle parole dipende solo da come ti comporti. (p. 118)
C’è molta vita in questo strano romanzo, molte domande che restano sospese; ci sono relazioni imperfette e scelte da cui non si può tornare indietro; ci sono uomini e donne che «fanno il possibile» e qualche volta non è abbastanza. C’è l’amore, mutevole, concreto. La vita, appunto.
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