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Di inquietudini, increspature, domesticità: la scrittura magistrale di Samanta Schweblin e le sue "Sette case vuote"

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Sette case vuote
di Samanta Schweblin
Sur, 2021

Traduzione di Maria Nicola

pp. 134
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook) 





Sono tutt’altro che vuote le case di Samanta Schweblin: abitate da inquietudini, assenze, oggetti da catalogare minuziosamente, domande che se espresse annullerebbero una distanza impedendo che si formino quelle increspature della quotidianità da cui si dirama il racconto. 
È l’inquietudine appunto, insieme all’ambientazione domestica predominante, a legare queste sette storie magistrali scaturite dal genio – ed è stato il New Yorker a usare per primo questo termine in riferimento a Schweblin – di una delle voci più originali e perturbanti del panorama letterario contemporaneo, che già nel 2010 era stata selezionata dalla prestigiosa rivista Granta fra i ventidue migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni, cui sono seguiti importanti premi letterari e l’attenzione di pubblico e critica internazionale. In Italia la scoperta di Schweblin si deve a Sur, casa editrice indipendente specializzata in letteratura latino e angloamericana che ha tradotto il sorprendente romanzo Kentuki (2019) seguito da Distanza di sicurezza (2020) e ora da questa raccolta di racconti del 2015 presentati per la prima volta in italiano. Argentina ma residente a Berlino da molti anni, Schweblin sfugge a facili etichette e classificazioni, ma di una cosa il lettore può essere certo: le storie cui si trova davanti scardineranno certezze, si insinueranno sottopelle. 
Quell’inquietudine di cui si diceva, sottile ma estremamente percepibile che entra nel quotidiano e ci mostra una realtà perturbante, scossa da un dettaglio, un comportamento fuori dall’ordinario, uno sguardo di traverso sul mondo. Realtà che Schweblin tratteggia con poche pennellate: luoghi indefiniti se non con rare eccezioni, personaggi spesso senza nomi e identificati per lo più dai rapporti che li legano agli altri, quasi del tutto privi di connotazioni fisiche. 
Le case, invece, e gli oggetti che le affollano, trovano spazio nella narrazione, perché centrali nel costruire l’idea dell’ossessione, nel rivelare l’increspatura del quotidiano di questi racconti quasi sempre in prima persona. Case e oggetti catalogati con attenzione, anche quando ci sono estranei, caricati di significato:
Questa è mia madre, mi dico, mentre lei apre i cassetti del comò e tasta sotto i vestiti per accertarsi che anche l’interno dei mobili sia di legno di cedro. Da quando ho memoria siamo sempre andate a vedere le case, abbiamo portato via dai giardini vasi e fiori inadatti. Abbiamo spostato gli irrigatori, raddrizzato le cassette delle lettere, tolto di mezzo oggetti decorativi troppo ingombranti per il prato. (“Niente di tutto questo”, p. 18)
Piccoli misteri affollano le pagine ma non ne troveremo soluzione, nemmeno quando basterebbero poche parole tra i personaggi per riuscire a comprendersi, mentre la narrazione si concentra su quel momento esatto fotografato. Ecco allora una figlia che, stanca, asseconda l’ossessione della madre per le case altrui, un “gioco” che le accompagna da sempre e che neppure da adulta trova il coraggio di interrompere, chiedere spiegazioni; qualcosa molto tempo prima si è rotto, qualcosa nelle loro vite ha preso una direzione sbagliata, ma mancano le parole per tentare di comprendersi, salvarsi. 
Un padre, separato, che non riesce a tranquillizzare l’ex moglie allarmata di non trovare i bambini nella casa delle vacanze e la tensione cresce e tutto precipita, quando basterebbe una parola, un gesto minimo: guarda, sono lì, sani e salvi, insieme ai nonni, solo in una situazione un po’ bizzarra. 

La tensione narrativa e una tendenza all’apertura in media res che, pur con le dovute distinzioni, mi ha richiamato alla mente certi racconti di Mary Robison riletti proprio di recente: istantanee di vita concentrate su un dettaglio che esclude fuori tutto il resto e di cui, come nel caso di Schweblin, osserviamo solo il breve momento che ci viene mostrato, consapevoli che moltissimo resterà fuori dall’inquadratura, in un certo senso irrisolto. 
E forse l’accostamento più immediato è con Shirley Jackson: il gusto per ciò che distorce l’ordinario, l’inquietudine del quotidiano, il pericolo, la domesticità stessa al cuore della narrativa di Jackson. Ma qui, a mio avviso, le similitudini si fermano: Schweblin assorbe e rielabora una tradizione letteraria differente, per farne una versione propria, una contaminazione di realismo magico, oralità, altre forme espressive, a partire dalla fotografia. 

Da qualsiasi punto si scelga di osservarla, la raccolta di Schweblin si svela potente, la scrittura estremamente calibrata resa dalla traduzione esperta di Maria Nicola, scarna, misurata. L’importanza delle parole: 
Mi è capitato tante volte di dire delle cose e, una volta pronunciate, le parole hanno avuto il loro effetto. Hanno trattenuto mio figlio, hanno allontanato mio marito, si sono riordinate divinamente nella mia testa tutte le volte che ho lavato i piatti. (“Sempre così in questa casa”, p. 41)
La casa, si diceva, il fil rouge più immediatamente riconoscibile che lega queste sette storie, ma ciò che davvero provoca l’increspatura è un movimento inatteso, il comportamento inusuale che irrompe nella quotidianità, la modifica, la distorce. E provoca dolore, talvolta. Una donna costretta ogni giorno a raccogliere dal proprio giardino i vestiti gettati dai vicini di casa appartenuti al figlio morto:
Bisogna andare ad aprire, aiutare quell’uomo a raccogliere la roba, dargli una pacca sulla spalla, annuire che la situazione non è così terribile e poi, cinque minuti dopo che è andato via, sentir gridare lei. Mio figlio è convinto che lei gridi quando apre l’armadio e ci trova di nuovo i vestiti del ragazzino. (“Sempre così in questa casa”, p. 37)
Giorno dopo giorno, un dolore che si rinnova. Come simile è il dolore al centro di “Il respiro cavernoso”, il racconto più lungo e intenso di tutta la raccolta; una storia magistrale, perturbante, scarna, ricchissima di rimandi, non detti, parti sommerse. Ancora una volta due vicini di casa, le proprie storie di perdita e dolore, la bizzarria del comportamento, le parole che scivolano via, il finale inquieto.
Classificare tutto. Regalare quello che non serve. Imballare le cose importanti. Concentrarsi sulla morte. Se lui si intromette, ignorarlo. (“Il respiro cavernoso”, p. 44)
Se dovessi scegliere un solo motivo per cui amare il racconto è proprio nella sua natura sperimentale, nella capacità di insinuarsi negli angoli più oscuri del cuore umano, restituirci le storture della realtà nello spazio breve di poche pagine. Schweblin maneggia la materia con particolare maestria, la sua scrittura sempre calibrata affonda nella tradizione e nella tecnica narrativa riuscendo poi a manipolarla, farla propria e inventarla nuovamente. Ci tiene con il fiato sospeso, dentro questi mondi, queste case e i loro misteri.