di Sergio De Santis
Mondadori, 2021
pp. 216
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Ponderato prima e poi audace e velocissimo in battaglia, determinato sempre e comunque, ma anche vanitoso e accentratore: Gaio Giulio Cesare non sfugge agli occhi del suo scrivano migliore, Aristocle, io narrante nel nuovo romanzo storico di Sergio De Santis. Ex schiavo, che ha potuto godere di una formazione invidiabile, perché l'istitutore della famiglia dove prima lavorava condivide con lui conoscenze filosofiche, storiche e letterarie, Aristocle non sa nulla del suo passato: forse è di origine greca, ma poco conta, ai fini del suo futuro. Molto più importanti sono invece le sue competenze di lettura e scrittura, che lo porteranno, una volta affrancatosi, a diventare lo scrivano di Cesare durante le sue memorabili spedizioni in Gallia.
Aristocle osserva tutto e prende velocemente nota di ciò che Cesare gli detta, su papiri che andranno poi consegnati in Italia. Se qualche volta viene coinvolto nella conversazione, si ricorda il consiglio del suo maestro: «Fingiti stupido, Aristocle, fai il commediante per divertire i padroni» (torna ad esempio a p. 170); questo funziona con le truppe, ma non certo con il comandante. Dunque, Aristocle deve essere accorto e tenere occhi e orecchie bene aperti, cercando di evitare con un po' di diplomazia e di buona eloquenza di tradire il suo pensiero sull'operato di Cesare. Lo scrivano vede infatti le qualità del condottiero, ma non nega le perplessità circa le stragi o l'esercizio molto selettivo e furbo della clemenza.
La Gallia e la Germania, così come la Britannia, non sono solo delle terre da conquistare, ma sono centri abitati da popoli da conoscere meglio, sia per motivi politici, sia per un autentico interesse da parte di Cesare. Quel che conosciamo come uno dei resoconti più celebri della storia, il De bello gallico, viene qui colto nel suo divenire, e la vita di Cesare non è raccontata dal grande condottiero, ma da un testimone d'eccezione, che guarda il suo presente dal basso della sua condizione sociale ma dall'alto della sua formazione culturale. Questo è il vero tocco innovativo del romanzo di De Santis, che non rinuncia a lasciarci intravedere le fonti, né a inserire nel tessuto narrativo informazioni sugli usi e i costumi dell'epoca, in particolar modo su quanto avviene nei castra romani e nella X legione di Cesare. Le abitudini degli schiavi vengono prese in esame tanto quanto quelle delle famiglie aristocratiche, perché Aristocle avrà anche modo, nel corso del romanzo, di cambiare vita per un periodo (ma non vi racconto come per non fare spoiler) e di non vedere per un po' i campi di battaglia. Le vicende narrate si prolungano fino alla guerra civile, all'assassinio di Cesare e si chiudono con i prodromi di quel grande cambiamento che trasformerà la repubblica in principato.
Appare dunque chiaro come il mondo romano raccontato ne Lo scrivano di Cesare sia pieno di contrasti, alcuni dei quali irrinunciabili e radicati a tal punto da restare tali per altri secoli, come sappiamo. La forma del romanzo, rispetto a un saggio storico, ha consentito all'autore di indugiare qui e là sui sentimenti dei personaggi, mentre in altri punti ha scelto di preferire l'andamento cronachistico, soprattutto per sintetizzare l'andamento della campagna in Gallia. Gli appassionati di storia romana troveranno qui un buon terreno di confronto per cogliere non tanto la giustezza dei fatti raccontati (ci mancherebbe!), ma per interpretare le scelte di Sergio De Santis (omissioni, tagli, vicende viste di scorcio o, viceversa, approfondite) alla luce della storia.
GMGhioni