“E se Pellicani avesse messo in scena tutto quel teatrino perché mi dedicassi a lui?”
Un libro sul rapporto tra padre e figlio è per forza di cose un libro sul potere.
Il corpo del padre, ormai vecchio e malato, rimpicciolisce. Il figlio crede di mantenere il controllo grazie alla natura, che è ancora dalla sua parte, e alla forsennata illusione di essere in grado di ragionare, prendere decisioni, comprendere il mondo. Un figlio che si spaventa nell’atto di riconoscimento del padre e di sé nel padre, che piega la realtà secondo i suoi bisogni scagliando supposizioni, illazioni, insinuazioni per allontanare la verità. Deforma. Imbastisce un ordine. Tutto suo. Scardina il piano realistico per sconfinare in un immaginario fatto di oggetti animati, significati reconditi, tracce misteriose da seguire per fare chiarezza su cosa sia successo in tutto il tempo (venti anni) trascorso senza vedersi.
Si mostra a suo modo
attento e premuroso con l’obiettivo che il padre torni a essere indipendente.
Ma il personaggio Pellicani figlio resta ambiguo (come lo si è nelle fasi di
cambiamento): ha una spiccata sensibilità e non accetta la malattia del padre
oppure è solo un modo per sottrarsi alla responsabilità delle cure? È un figlio
che si sente in colpa per la sua assenza o un prodotto inconsapevole di quella
società cinica alla quale si illude di resistere? Un figlio che nutre rancore
per sfuggire al giudizio del padre? Ancora, chi è veramente molesto? Il padre
con il suo bisogno di assistenza o il figlio che immagina complotti dappertutto
per non fare i conti con la sua incompiutezza e solitudine? La sua posizione
ideologica esclude la possibilità di un confronto con sé stesso e con il
genitore e così questo giovane si avvita nel suo delirio individualista tenendo
a cuore più di tutto la sua reputazione.
Con una scrittura abrasiva attraversata da un’altissima densità poetica e da una variazione allucinata di registri linguistici usati per tessere un monologo claustrofobico ed esatto, l’autore gioca con maestria all’interno del luogo dove si svolge interamente la scena di questo scontro/incontro che si fa convivenza: una casa (di famiglia?). Lo spazio domestico che ineluttabilmente dà e priva e al quale si torna (con i ricordi e, se possibile, con il corpo) alla ricerca dell’identità, come se lì fosse custodita (o seppellita?).
Il giovane va in cerca di somiglianze col vecchio che quando affiorano poi rinnega; in cerca di complicità che dura poco e non regge davanti alla forza di un sistema costituito da ingranaggi precisi volti a dividere, allungare le distanze dei rapporti personali.
Insinua che il vecchio (padre) abbia un piano per ostacolare il suo avvenire, finendo per attribuirgli anche colpe che non sono sue e indulgere così al vittimismo. Tutto invischiato da sempre (e per sempre?) nel dubbio che il padre sia un eroe che non accetta compromessi o un impostore.
“Non potevo ora dimenticarmi le sue gesta solo perché si lasciava nettare il sedere e scrutava con occhi vaneggianti la donna che andava e veniva per la stanza spazzando i calcinacci. Anche i ribelli sono esseri umani, tutto sommato”
Più di ogni cosa cerca in lui l’indipendenza da ogni forma di assistenza, la sola che può permettergli di tornare alla sua vita, di continuare a pensare al suo avvenire – un avvenire che si proietta tutto verso la nuova frontiera del capitalismo, la Cina, in un tempo in cui anche il sogno americano è superato, trito, conquistato, decostruito.
L’ideologia regge ancora come un’ottima scusa per sollevarsi dalle responsabilità, in tal caso filiali, e non vedere ciò che contraddice un sistema di idee che deve presentarsi invece inattaccabile, inossidabile.
Ma la letteratura oltrepassa da sempre ogni ideologia e così è solo dalle ceneri di una scrittura (finzione) eccessiva, funambolica, rotta, visionaria, attraente e respingente allo stesso tempo, politicamente scorretta, sovversiva che si intravede qualche verità su questo rapporto universale.
i Pellicani è una delle rare opere in cui la forma è inscindibile dal contenuto, grazie a una lingua, materia prima ed eletta dell'autore, che interroga, infetta e cambia la realtà.
“L’amor familiare consiste in un complicato ordigno che mescola possesso, diritti, aspettative, consuetudine, distrazioni, prevaricazioni e taciturni, lenti affrontamenti, bracci di ferro che durano una vita” (Giorgio Manganelli, da Famiglia II, in Mammifero italiano).
Il romanzo, finalista al XXXII Premio Italo Calvino, Menzione Speciale Treccani, finalista della VI edizione Premio Fondazione Megamark, finalista della XXVIII edizione del premio letterario "Giuseppe Berto", piccolo capolavoro narrativo e stilistico, è una versione avanguardistica della Titanomachia, una forma inedita e geniale per raccontare un tema antico. La famiglia continuerà ad esistere, ma in quali modi? Secondo quali gerarchie, modelli, rapporti? Questo è tutto da scrivere.
Maria Teresa Rovitto
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