di Ian Castello-Cortes
traduzione di Daniela Magnoni
L’ippocampo, 2020
pp. 128
€ 12,00 (cartaceo)
Se dopo tutti questi indizi ancora non avete ancora capito che l’identikit corrisponde al profilo di Keith Haring (1958-1990), non resta che invitarvi a digitare questo nome su un qualsiasi motore di ricerca e prepararvi all’agnizione istantanea: perché chiunque, ancora oggi e a trent’anni dalla sua prematura scomparsa, sarebbe in grado di riconoscere un’immagine a lui riconducibile. E se ciò accade è proprio grazie a quella sua maniera così efficace di comunicare esorcizzando l’horror vacui, optando per un affollamento visivo in cui il riempimento della superficie murale, pittorica o ambientale è dato dalla ripetizione (non di rado brulicante) di figure stilizzate (umane, animali e vegetali), stagliate su campiture di colore piatto e delineate da contorni curvilinei o zigzaganti, spessi e neri, fitti nelle intersezioni e nelle sovrapposizioni; disegni solo apparentemente semplici e infantili eppure immediatamente iconici, potenti, energici, che come sarebbe capitato ad altri artisti suoi contemporanei – come nel caso del più giovane amico Jean-Michel Basquiat – catturarono l’attenzione di giornalisti, critici, galleristi, collezionisti, curatori e mercanti, che ne trasformarono la gratuità della sede urbana originaria in cifre a svariati zeri. E questo ben prima che il giovane Keith fosse arrivato al compimento del venticinquesimo anno di età, dunque poco oltre quel “mezzo del cammin” di sua vita che a causa dell’HIV lo avrebbe visto rallentare il passo e fermarlo del tutto pochissime primavere dopo.
Per chiunque voglia ripercorrerne per sommi capi l’iter biografico e topografico, Cercasi Haring disperatamente è la guida con cui Ian Castello-Cortes ha riepilogato le tappe della (breve) vita e della (fulminea) carriera di questo eterno, vivacissimo e ambiziosissimo ragazzo della street art, che partendo dalla provincia (era nato a Kutztown, in Pennsylvania), passando per il Pittsburgh Center for the Arts di Pittsburgh e poi dalla School of Visual Arts della Grande Mela (non meno che dai suoi sobborghi) ha conquistato le vette olimpiche del sistema dell’arte proprio negli anni in cui questo andava consolidandosi nelle prassi in cui ancora oggi lo conosciamo: un sistema in cui il desiderio di farsi notare e ricordare di pittori, scultori e performer trovava quasi sempre dall’altra parte quello tutto mercantile, affaristico e speculativo di professionisti di settore interessati più al guadagno che al contenuto, più al prestigio della sede dell’esibizione che al concetto di fondo alla base della stessa (su tutti vale la pena nominare almeno Tony Shafrazi, per cui il giovane Keith fu un riottoso assistente e che in seguito, nel 1982, gli allestì la prima mostra personale nella sua neonata galleria a 163 Mercer Street, con tanto di catalogo patinato e testo critico d’eccezione a firma di Jeffrey Deitch).
Fu un meccanismo, questo, a cui Haring, inizialmente riluttante, scelse in seguito di non sottrarsi affatto, e da cui anzi cercò di trarre tutto il vantaggio possibile in termini di presenze, incontri e collaborazioni (da Andy Warhol a Grace Jones, da già citato Basquiat a un’esordiente Madonna) applicando alla professione la stessa bramosia esistenziale che lo portò a vivere appieno la sua dichiarata omosessualità e a frequentare attivamente non solo gallerie di pregio (quelle di Leo Castelli a Manhattan, quella di Lucio Amelio a Napoli) ma anche ogni sede di riferimento per il movimento underground – il CBGB, il Danceteria, il Club 57, il Mudd Club, il Paradise Garage, il Palladium... – in un’autentica orgia creativa e sessuale che per molto tempo fu fatta di “ballo e sballo”, movimento perenne e alterazione perpetua: una joie de vivre progressivamente favorita dai guadagni incredibili, che ovunque si trovasse gli permettevano di non mancare la serata settimanale nel locale preferito grazie al noleggio di un comodo elicottero. Questo, almeno, fino all’avvento dell’AIDS, che coincise con una svolta tanto privata quanto pubblica e che più in generale lo portò a fare proprie cause civili e politiche (si pensi il suo intervento sul muro di Berlino) e legate alla promozione dell’arte nell’età infantile, alla lotta contro le droghe (specialmente il crack), all’adozione di comportamenti sessuali sicuri e responsabili e alla lotta contro i pregiudizi nei confronti non solo dell’omosessualità ma anche della nuova malattia che inizialmente colpì in grande percentuale proprio la comunità gay.
Dopo Banksy, Frida Kahlo, David Bowie e Jean-Michel Basquiat, con questo volumetto dedicato a Keith Haring la collana delle mini-guide d’artista pubblicate in Italia da L’ippocampo – nell’ormai riconoscibile formato tascabile, epperò impreziosito dalla copertina rigida – arriva al suo quinto esemplare, sempre nel segno della controcultura contemporanea così cara a Ian Castello-Cortes e sebbene proprio quella che a suo tempo nacque come avanguardia, e dunque al di fuori o ai margini del sistema, possa ormai essere considerata a tutti gli effetti mainstream. Nemmeno questa guida fa eccezione, e al suo interno, oltre a una raccolta di belle fotografie e ad alcune mappe che aiutano a visualizzare la presenza dell’artista negli USA e a Manhattan, non si trova nessuna lettura critica particolarmente originale, bensì un omaggio all’artista sub specie topografica, utile a chi intenda mettersi per la prima o l’ennesima volta sulle sue tracce.
Per certi versi, più che un amarcord in chiave anni Ottanta-Novanta, sfogliare questo libro sarà una specie di “ritorno al passato” che sa di “ritorno al futuro”, a un giro di anni in cui quello che sembrava l’avvenire dell’arte poteva farsi ben notare nei sottopassaggi e nelle fermate della metropolitana, trasformare l’atto tradizionalmente vandalico in lussuoso environment e decorazione esclusiva, sposare cause impegnate e non di meno (come ancora oggi accade, e come i bookshop di musei e gallerie lo confermano) parcellizzarsi su poster, cartoline, t-shirt, sneakers e berretti da baseball (il suo “Pop Shop” inaugurato nel 1986 a Lafayette Street, Manhattan, è rimasto attivo fino al 2005). Quello curato da Ian Castello-Cortes è un libro che, in antifrasi rispetto al suo titolo, racconta le tappe un’arte ben poco “disperata”, e in cui è tutt’al più la precoce scomparsa del suo fautore a lasciare spazio all’immaginazione, e a interrogarsi sulle modalità in cui il suo talento si sarebbe potuto esprimere e rinnovare ancora per moltissimi anni. Il mondo dell’arte, ad ogni modo, non ha smesso di amare e celebrare Haring, dagli Stati Uniti al Giappone, e la stessa “vecchia Europa” vanta più di un luogo – la facciata posteriore del Convento dei Frati Servi di Maria, dietro la chiesa di Sant’Antonio Abate, a Pisa, il reparto maternità del Centro Ospedaliero Principessa Grace di Monaco a Monaco, l’ospedale pediatrico Necker di Parigi – in cui le tracce più mature del suo inconfondibile passaggio sono speranzosamente custodite per i posteri.
Cecilia Mariani