«Fu una generazione che soffrì molte pene. Che visse esperienze di ogni genere: dal carnevalesco alla tragedia, dalla comicità alla ferocia», Mario Tobino, in Aldo Grandi, Autoritratto di una generazione
Con Storia aperta, l’esito di quasi vent’anni di letture, di lavoro e scrittura, Davide Orecchio ritorna a scavare nella storia del Novecento, il secolo che non passa mai, che a volte sembra lontanissimo e altre tragicamente attuale.
Lo fa attraverso la ricostruzione della vita di Pietro Migliorisi, un personaggio immaginario ispirato alla figura del padre, Alfredo Orecchio, nato in Sicilia nel 1915 e deceduto poi a Roma nel 2001. Una vita incredibile, e a suo modo eroica, come solo quelle del secolo passato ci appaiono; un tempo in cui l’individuo è stato prima divorato dalla macchina partitica che ha fatto di lui e dei suoi simili un’unica materia, la massa, e poi politicamente atomizzato (e ancora una volta fagocitato) dalla vittoria di un altro ingranaggio totalizzante che di quella massa si è servito, il capitalismo.
Migliorisi è un bambino destinato a ricevere
un’educazione fascista, ancora troppo piccolo per combattere nella Prima guerra
mondiale, avrà presto modo di riscattarsi davanti ai discorsi pubblici sulla
necessità di servire la patria partecipando alla guerra d’Etiopia e poi alla Seconda
guerra mondiale, prima arruolato nel Regio esercito italiano e poi dal 1943,
anno dell’Armistizio, dalla parte della Resistenza, come partigiano combattente
nella guerriglia urbana di Roma. L’8 settembre ha rappresentato per molti un
profondo spartiacque dopo il quale molti giovani adulti, educati sin
dall’infanzia secondo i precetti del Duce, sono riusciti ad abbandonare l’idea
di un’Italia fascista, traditi ormai più volte dal partito; tanti i pentiti
soprattutto da quando Mussolini (anche qui M.) scese a patti con il Vaticano,
la borghesia e la monarchia tanto osteggiati nei programmi delle origini, ma
anche dopo l’esperienza drammatica da soldati nella campagna d’Africa, poi al
fronte italo-albanese e dopo l'alleanza col nazionalsocialismo.
I nomi sono quelli di un’intera generazione (che nell’opera Orecchio definisce bambini diacronici) coinvolta in una guerra civile: Felice Chilanti (1914-1982), giornalista e scrittore (che sarà uno dei personaggi importanti di questo romanzo insieme al Comunista, ispirato alla figura di Mario Alicata), che negli anni Trenta, a Roma, milita nelle frange del cosiddetto “fascismo di sinistra”. Arrestato e mandato al confino a Lipari (1942), con l’accusa di avere complottato contro Ciano e altri gerarchi, dopo l’8 settembre aderisce alla Resistenza. Ancora, Davide Lajolo (1912-1984) giornalista, scrittore, dirigente del Pci che nel 1937 partecipa alla guerra di Spagna nella divisione Volontari del Littorio. Dirigente nel partito nazionale fascista, ufficiale sul fronte greco-albanese. Dopo l’8 settembre aderisce alla Resistenza e al partito comunista, e finisce con l’essere a capo del movimento partigiano piemontese. E poi tra gli altri Ruggero Zangrandi, Antonello Trombadori. Il romanzo ci aiuta così anche a comprendere che il movimento fascista non fu monolitico, come siamo troppo spesso abituati a pensarlo. Ma fu composto da facce, persone, storie diverse, scelte sofferte dietro tutte le ombre.
Ancora una volta, infatti, come già in passato (Città distrutte), egli dissemina memorie familiari prestate ai personaggi, attinge a fonti edite, romanzi, saggi, articoli di giornale, lettere, materiali d’archivio dei protagonisti di quella storia politico-sociale per farne materia narrativa.
Caratterizza il lavoro di Orecchio il racconto delle vite dei personaggi come nel tentativo di afferrarli nel flusso della Storia un attimo prima che li consegni all’oblio (non a caso molti critici hanno spesso accostato la sua opera a quella di W.G. Sebald).
In Città distrutte, opera salutata come una tra le più interessanti tra quelle segnate dal rapporto tra indagine storica e finzione, era già stato usato questo metodo di lavoro e c’era anche il personaggio Pietro Migliorisi, ispirato ad Alfredo Orecchio, che lì iniziava a delinearsi e qui diventa invece protagonista indiscusso, dal momento che Storia aperta è fondata sulla sua vita interiore nella quale gli eventi storici si specchiano. Ci sono le note che rimandano alle fonti consultate, ci sono i documenti, sia pubblici che privati, ci sono le citazioni da testi editi o mai pubblicati. Questo corredo di inestimabile valore è composto anche dai testi autobiografici del padre di Orecchio, poesie, articoli giovanili in cui egli, ad esempio, fomentato dallo spirito ardito, antiborghese e palingenetico del tempo, nonché per il bisogno di accettazione e di conferme in una Sicilia immobile, osa stroncare pubblicamente Montale, Ungaretti e Quasimodo per poi soffrirne in privato, nella solitudine accentuata dalla sua sensibilità poetica.
Rispetto alle opere precedenti questo modo di procedere sembra radicalizzarsi sebbene l’invenzione, come rivendicato nelle note dallo stesso Autore (“Migliorisi si emancipava dal Doppelgänger di A.O”), continui a prevalere sulla ricostruzione saggistica. Funziona da impalcatura a quella che si potrebbe pensare come una forma di romanzo storico tutta avvitata sullo stile di Orecchio che continua ad imbastire biografie apocrife rispetto a quanto realmente accaduto. Il testo è intessuto in gran parte da significative citazioni riportate tra virgolette tratte dalle opere che ibridano la narrazione. La struttura, dunque, così innervata dalle parole dei protagonisti storici, riflette perfettamente le tematiche affrontate: la parabola del Novecento che non può che essere un racconto corale, l’educazione di un’intera generazione, il dolore e la lacerazione della guerra, le delusioni e le scelte politiche, lo spirito della ricostruzione, la nascita di una democrazia, il disincanto. Su tutto sovrasta quel passato da fascista con il quale Migliorisi (come Alfredo Orecchio) farà i conti per tutta la vita sia davanti a sé stesso che davanti al partito comunista del quale sarà un membro guardato sempre con sospetto dalla dirigenza.
"Mentre parlava Togliatti mi chiedevo se mi avrebbe mai accolto nel suo comunismo, se ne sarei mai stato all’altezza, avrei saputo corrispondere all’esigenza dei Sillabari?, a tutta quella giustizia?...e Palmiro Togliatti ci disse: noi non abbiamo nessun rimprovero da muovere ai bambini diacronici, semmai sono loro che hanno dei rimproveri da muovere a noi, che in vent’anni di fascismo abbiamo fatto troppo poco per spingerli a percorrere il cammino delle democrazia, o del comunismo, o del socialismo…è ridicolo accusare i bambini diacronici di essere stati i pilastri del regime fascista, loro sono stati gli ingannati, non gli ingannatori, ora hanno la possibilità di combattere e dimostreranno quanto sono sani…" (pp.250-251)
Dalle note apprendiamo che il Pci, che controllava e spiava i militanti, fece proprio di Alfredo Orecchio, che confessava ai suoi diari e agli amici il suo smarrimento, un caso esemplare. Ne nacque una “questione Orecchio” affrontata durante alcune riunioni del 1952 alle quali erano presenti Togliatti, Longo, Scoccimarro, D’Onofrio. In merito si stabilì: «sia trattato come malato; gli si parli».
Ed è la voce intima, non pubblica, di Migliorisi che sentiamo dire per tutta la narrazione “io sono un pazzo, io voglio uscire dal tempo”.
Dall’altro fronte Alfredo Orecchio fu oggetto di denunce anonime dal 1962 al 1964 da parte di ex fascisti o neofascisti che gli contestavano il passaggio al comunismo e all’antifascismo militante.
Dunque egli sarà per tutta la vita spezzato, prima un bambino spezzato e poi un compagno spezzato,
“[P]ostfascista e ora schiacciato dallo stalinismo, con la sua slavina di esaurimento e panico dovuti all’incapacità di adeguarsi a un clima politico paranoico e aggressivo, non fu questione individuale ma di molti, negli anni della guerra fredda successivi alla sconfitta elettorale dell’aprile 1948 e all’attentato a Palmiro Togliatti del luglio 1948" (pp. 608-609)
Storia aperta appare anche come un tentativo di risolvere la figura del padre che per tutta la vita è stato consumato dal senso di colpa al cospetto di un mondo totalmente politico, dove era normale, ancora negli anni Sessanta, fare del partito il destinatario di una lettera: “Caro Partito…”.
“Eri nato incosciente nel tuo fascismo, sei cresciuto sconsiderato e fascista, poi ti eri smarrito nelle guerre fasciste, ora puoi “riscattarti” nel nostro esercito, nel tuo comunismo… E «ho provato vergogna d’essere stato fascista» – dice Pietro al diario –, e «vorrei scavare nel petto questa piaga della mia gioventù», e «non ho nulla dietro le spalle», e non sono all’altezza dei castori che si danno al terrore contro il lupo nazista, troppo giovani per sentire la colpa d’essere stati fascisti, guerriglieri coraggiosi, sfrenati, colpiscono e scappano, colpiscono e scappano, colpiscono e scappano, e penso «alla mia giovinezza mortificata nelle radici, un po’ sporca», e alle loro che sembrano «non conoscere impaccio, scoperte e pulite, coi piedi a terra e col ciuffo»…” (pp. 213-216)
Del resto, confessa Migliorisi con quella lucidità che forse lo ha salvato, non senza pagare alcun prezzo,
“Non era stato difficile sostituire il mio fascismo col mio comunismo, ho cambiato il passeggero alla macchina, ho rivoluzionato le idee e i sentimenti, ma il mio strumento rimane il partito e dev’essere un partito morale, totale”, (p. 254)
Migliorisi continua a porsi domande eretiche anche da comunista: “Gli operai di Occidente cosa desiderano? Restare proletari oppure la proprietà delle cose?”, a riflettere sulla crisi di Ungheria, Polonia, sugli orrori delle politiche staliniste, sulla mutazione dello stesso PCI.
“Mio padre si ostinava a scrivere e parlare di comunismo mentre il partito moriva. Era sempre stato “ingenuamente” comunista. Aveva sempre parlato del partito come di un padre. E ancora adesso, a ottantuno anni, pensava al partito e si rammaricava che l’avesse dimenticato. Un partito che nemmeno esisteva più.” (p. 655)
Quando la letteratura non basta a sé stessa e ricorre sempre più spesso alle biografie di uomini e donne esistiti nella ricerca dell’effetto di realtà (ma qui con altre intenzioni personali dichiarate nelle note dall'Autore), ci accorgiamo, a ogni modo, che solo con la scrittura e nelle opere di invenzione si raggiunge, o almeno si ha l’impressione di sfiorare, la verità. Il Novecento continuerà ad avere autori provenienti da ogni ambito disciplinare, ma bisogna riconoscere che ci sono storie che gli scrittori sanno restituire meglio di un giornalista, di un saggista, di uno storico grazie alla capacità di immergerle in una dimensione non solo letteraria, propria anche di altri testi, ma di elementi fittizi che accelerano la rivelazione se non di risposte, sicuramente di domande. In quest’opera il rapporto tra realtà, finzione e verità viene continuamente rimodulato. A volte i confini sembrano più nitidi e altre più sfumati.
La scrittura densa procede per lunghe pause riflessive e poi accelerazioni, cadenzata da uno stile lirico nella parte sull’infanzia, la giovinezza, l’educazione sentimentale, il paesaggio di guerra, e poi asciutto e spezzato nel racconto dell’età adulta e della vecchiaia. La sintassi, molto elaborata, è composta da lunghi segmenti saggistici per i quali chi scrive ha preferito spesso fare ricorso all’inestimabile apparato di note, prodotto dal lavoro certosino dell’Autore, per apprezzare meglio il contenuto a costo di rallentare la lettura.
Maria Teresa Rovitto