Il giusto peso al valore dell'esistenza: "Una vita su misura" di Hans Marteen van den Brink

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Una vita su misura
di Hans Marteen Van Den Brink
Marsilio, 2021

Traduzione di Claudia Di Palermo e Stefano Musilli

pp. 167
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

Eravamo gli eredi di una tradizione. E chissà che senza rendercene conto non abbiamo poi agito di conseguenza. Tutta la nostra vita lavorativa è stata dedicata al Servizio (per il controllo di Pesi e Misure, ndr). O meglio, al Servizio e alle sue mutazioni successive; oggi ci chiamiamo Metrifact Srl. Non immaginavamo che potessero cambiare tante cose, e di certo quella mattina di gennaio del 1961, quando eravamo ancora giovani e pieni di buoni propositi, l'idea non ci sfiorò nemmeno. (p. 35)
Da "Ufficio Reale per il Controllo di Pesi e Misure" a "Metrifact Srl": un cambio di denominazione che contiene la trasformazione di un mondo intero. E di due vite, quelle dei due protagonisti del romanzo, due colleghi che si erano conosciuti, ragazzi, al loro primo giorno di lavoro, al Servizio Pesi e Misure, l'ente pubblico olandese che aveva il compito di controllare che i sistemi di misurazione si uniformassero alle unità di misura assolute (metro e chilo) conservate a Parigi. I protagonisti del libro Una vita su misura sono Karl Dijk, che non vedremo mai, e il narratore, di cui non conosceremo mai il nome. Il loro compito, all'interno dell'Ufficio, era quello di controllare che le bilance dei piccoli commercianti fossero tarate alla perfezione e corrispondessero alla misura standard. Passa un mondo intero, si diceva, tra le due definizioni, quello che va dal 1961 al 2007. Un tempo che ha visto i due colleghi trasformarsi, da giovani neoassunti, in anziani e pensionati.

Da qualche tempo il narratore, quello di cui non sapremo mai il nome, malato e febbricitante ha un pensiero ossessivo, che si trasforma addirittura in visione: il suo amico e collega Karl (e non Karel, come tanti, sbagliando lo chiamavano)... che fine avrà fatto? dove sarà? che cosa starà facendo? Nessuno ha più saputo nulla di lui dopo la festa in ufficio che la nuova direttrice aveva deciso di dedicargli, in occasione del suo prepensionamento. Una festa scandita dalle parole del discorso che il collega e amico narratore aveva scritto per la direttrice, la quale a malapena li conosceva e poco sapeva del loro lavoro. Karl Dijk, a quella festa però, non si era presentato. E, nell'imbarazzo generale, tra un drink e uno stuzzichino, la direttrice continuava a leggere le parole di quel discorso che preconizzava la fine del vecchio lavoro, con la sua moralità, i suoi ritmi, i suoi riti, e l'inizio del nuovo, tutto riunioni, fluidità (concetto tanto moderno), profitto, meccanismi e spersonalizzazione.
Piano piano, attraverso i ricordi del narratore, si dispiega davanti ai nostri occhi l'epopea, apparentemente tutt'altro che eroica, di un uomo che aveva fatto dell'integrità morale e della dedizione al lavoro il mantra della sua vita. Non conosciamo nulla di Karl, non sappiamo che cosa facesse a casa dopo il lavoro, se avesse hobby, se viaggiasse, cosa leggesse, se andasse al bar con gli amici. La sua figura si costruisce, granitica, soltanto in relazione al lavoro. E il narratore definisce il vecchio amico e collega solo in virtù di negazioni.
Dijk non aveva figli, Dijk non era sposato. Dijk non aveva mai dubbi. Dijk non faceva battute. Dijk non rideva. Dijk invecchiava ma non ingrassava. Dijk non si omologava. (p. 49)

E invece, eccola qui l'eroicità del protagonista: Dijk non si omologava, non si piegava alle derive e ai mutamenti imposti dalle nuove forme assunte dal lavoro, non si adeguava, non mutava. Fino a trasformarsi, agli occhi della nuova dirigenza, in un peso morto, in un anacronistico pezzo di mobilio, una scrivania scomoda sopravvissuta ai vari traslochi di sede. Finché, un giorno, qualcuno doveva pur decidersi di liberarsene. Ed ecco l'idea, il prepensionamento presentato come un'opportunità unica e irripetibile.

L'azienda era entrata in una nuova fase (...). I meriti di Dijk, che erano indiscutibilmente molti, appartenevano al passato. Ora più che mai bisognava concentrarsi sul futuro. E il futuro che ci aspettava era di continuo cambiamento, di perenne movimento (...). La competenza di oggi sarebbe stata il pezzo da museo di domani. (p. 24)

Così diceva la nuova direttrice spiegando, sorniona, perché il prepensionamento di Dijk non fosse ormai più rimandabile. Perchè anche Dijk, con tutta la sua competenza, si era ormai trasformato in un pezzo da museo. D'altra parte, si sa, le competenze ormai contano poco, ormai ci vogliono le soft skills.
Hans Marteen van den Brink, giornalista e scrittore olandese, in questo suo originale romanzo lancia un grido di dolore per un mondo che non esiste più, un mondo in cui la dimensione del lavoro era umana, e per una società, quella degli anziani contadini che vendevano patate e ortaggi al chilo o delle piccole bottegucce di paese. Una realtà finita, fagocitata dalle multinazionali, nelle quali il lavoratore è soltanto un numero o un dente dell'ingranaggio, e dai grandi supermercati dove si vendono tonnellate di cibi confezionati che non abbisognano di essere pesati. E se il controllo non frutta denaro, in una società che è governata dal capitale, tutto, anche l'antico Ufficio Pesi e Misure, deve mutare: quelli che un tempo erano controllati si trasformano in clienti, in stakeholder per camminare insieme verso un futuro radioso. Protetti dall'ombra del dio denaro.
Sono innumerevoli gli spunti di riflessione che escono dalle righe di questo romanzo, che sta in bilico tra la nostalgia di un tempo lontano e la denuncia sociale delle storture che avvengono nei luoghi di lavoro, che dovrebbero essere gli spazi della piena espressione dell'uomo e della sua competenza. Ormai tutto è relativo, e se prima il mondo poggiava su saldi e solidi principi, morali, religiosi, sociali, politici, proprio come i pesi e le misure trovavano la propria ragion d'essere nel conformarsi al peso standard, così ora tutto cambia, tutto si relativizza, nulla ha più un legame oggettivo e incontrovertibile. Neppure più le misure standard, visto che il metro non si misura più in relazione alla Terra, ma al tempo, e il chilo parigino ha subito microvariazioni di peso dovute al trascorrere del tempo. E forse è proprio il tempo il responsabile di tutto. Questa misura insieme oggettiva (tutto il mondo si basa sul tempo degli orologi) e soggettiva (quanta differenza notiamo tra il tempo che scorre velocemente se stiamo facendo qualcosa di piacevole o il tempo che non passa mai se siamo in mezzo a una situazione difficile o angosciosa).
Dignità dell'uomo e del lavoro, questo principio, alla base di ogni rapporto lavorativo, è il vero cardine del romanzo. E Van den Brink sceglie di raccontarcelo non con riflessioni o con proposizioni apodittiche, ma attraverso la quotidianità, complice e affettuosa, di due colleghi che condividono 45 anni di vita, all'interno dello stesso ufficio e con gli stessi compiti. Una familiarità tranquilla e antica che non potrà che suscitare un sorriso (e un poco d'invidia) in chi è avvezzo ai moderni uffici dove essere smart (ancora prima che smart worker) è un must, dove il follow up segue sempre il kick off, dove il brainstorming si fa nei meeting o nelle call, dove le mail si chiudono con richieste di feedback da adempiersi asap (che sta per as soon as possible... ovviamente fyi, for your information).

Sabrina Miglio