di Hideo Kojima
451, luglio 2021
Traduzione di Davide Campari
pp. 281
€ 16 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
“In questo preciso istante sembri uno dei meme di Hide the Pain Harold!”, risate a seguire.
Questa affermazione buttata lì in segno di canzonatura, ha significato per me l’inizio di una nuova scoperta, i meme, le folte sopracciglia dell’espressione digitale.
Nel 1976 il biologo Richard Dawkins conia la parola meme ne Il gene egoista per indicare un’entità di informazione replicabile, di «idee che si diffondono da cervello a cervello»:
«Noi abbiamo bisogno di un termine per il nuovo replicatore, un nome che esprima l'idea di un'unità di imitazione. "Mimeme" viene da un'idonea radice greca, ma io voglio un monosillabo che suoni un po' come "gene". Io spero che i miei amici classicisti mi perdoneranno se io abbrevio mimeme in meme. Se può essere di consolazione, potrebbe essere in alternativa pensato come qualcosa relativo alla "memoria", o alla parola francese même. Dovrebbe essere pronunciato per rimare con cream [crema, n.d.r.]» (da Il gene egoista, Mondadori, 2017).
Da allora meme è passata di mano in bocca di biologi evoluzionisti, psicologi, tra cui Henry Plotkin, fino ad arrivare a Douglas Hofstadter e Deniel Dennett menti della scienza cognitiva, poiché tutti riconoscevano che il meme si andava affermando come il nuovo modello della coscienza e del pensiero umano. Proprio per questa ragione, insieme ai meme o memi, dopotutto siamo italiani, nasce il memetista, studioso di memetica, una sorta di protoscienza interdisciplinare che investiga i modelli sul trasferimento di informazioni.
A rendere così famoso, o meglio, spaventosamente virale il meme è stata ed è la potenza involontariamente collettiva degli infiniti partecipanti culturali che creano, divulgano e trasformano testi di immagini, audio, video, un’idea, una frase, addirittura una filosofia, una religione o una qualunque creazione artistica attraverso una sconfinata rete di comunicazione.
«Un "meme", nel gergo della Rete, un "miim" nella pronuncia inglese, diffuso attraverso i meccanismi delle nuove tecnologie e dei nuovi prodotti, hashtag, Facebook, blog, email, YouTube, usato a volte per fare pubblicità commerciale. Chiunque può entrarvi e uscirne, anche lasciando un messaggio, un suggerimento, una spiata nella cassetta postale […]» (di Vittorio Zucconi, Repubblica, 6 marzo 2012, Prima Pagina)
Nel vasto oceano del web dopo una veloce ricerca, si risale all’ipotetico primo meme, pubblicato tra il 1919 e il 1920 sulle riviste satiriche Wisconsin Octopus prima, e successivamente ripresa dal The Judge, dell’Università dell’Iowa. 'Expectations vs. Reality' joke, questa era la definizione che anticipava la geniale intuizione linguistica di Dawkins, vale a dire due immagini simili poste l’una accanto all’altra, con una palese e dissacrante discrepanza tra loro. (Per i più curiosi è possibile godere di alcune variazioni sul tema postate su Twitter qualche anno fa).
Presunto primo meme |
Ritornando a quel buontempone di Hide the Pain Harold, nella realtà András Arató, e alla risata innocente del mio amico, è necessario evidenziare che l’informazione virale dei meme non è quasi mai voluta da parte dei protagonisti ritratti in immagini o video. Lo stesso Arató, in un’intervista rilasciata all’Indipendent nel 2018, chiarisce che inizialmente caricò su un sito di una comunità ungherese (Facebook all’epoca non era ancora così diffuso) una serie di selfie scattati durante alcuni viaggi. Successivamente, dopo aver tenuto una conferenza, due studenti gli chiesero una foto, motivo che lo spinse a ricercare tramite Google Immagini che fine avesse fatto la sua faccia da selfie. «All’inizio ho visto solo normali foto d’archivio dove ero un dottore o un avvocato o un professore o qualcosa del genere» – dice András Arató all’Indipendent – «Alcuni mesi dopo ho trovato il mio primo meme su un sito americano. All’inizio era scioccante. Ero molto sorpreso. C’erano alcuni testi davvero divertenti e mi piacevano, ma ce ne erano anche alcuni brutali che non lo erano affatto». «All’inizio volevo fermarlo» – continua – «ma è impossibile, se la tua faccia si è diffusa su internet, non puoi farci niente, puoi chiudere un sito ma ne appariranno altri tre».
In altre parole, la memetica si fonda sulla riappropriazione, considerando ciò che è familiare e ciò che non lo è come nuove interazioni aggrovigliate a idee stabilite, che richiedono una attenta comprensione intertestuale. Dunque, ecco che ritorniamo alla definizione di Dawkins: gene-meme.
E i libri, possono essere classificati tra i meme?
A rispondere è Hideo Kojima, il visionario, genio, e creatore di uno dei videogame più venduti e apprezzati di sempre: la serie di Metal Gear (1987-2018).
«Non riesco a pensare a un mondo senza libri» – esordisce Kojima nella formidabile edizione in italiano di Il gene del talento e i miei adorabili meme, pubblicato recentemente da 451. «Anche se leggere è un’attività solitaria, possiamo comunque condividere la storia che si dispiega di fronte a noi con tantissime persone che neppure conosciamo. Siamo isolati, eppure uniti. […] A fungere da intermediari per tale collegamento saranno i meme. […] A differenza del materiale genetico, che trasmette informazioni biologiche, i meme passano da una generazione all’altra cose come la cultura, le abitudini e i valori» (pp. 12-13).
I più appassionati sanno che le iniziali di Metal Gear, MG, stanno per Meme, Gene, riportandoci così alla genesi della spirale linguistica dawkinsiana. Con Il gene del talento e i miei adorabili meme Kojima mette a disposizione del suo vasto pubblico saggi, recensioni, pensieri e incontri unici della sua vita, dimostrando involontariamente quanto può essere fondamentale un meme, tralasciando tutta la questione scientifica e interdisciplinare accennata precedentemente.
L’attività di lettura, o visione di un film o di ascolto di una playlist a caso, seppur apparentemente solitaria, ha stimolato e connesso a tal punto la mente geniale dell’autore di videogiochi, da condurlo alla creazione di uno dei mondi videoludici più completi e complessi. La caratterizzazione dei suoi personaggi in rapporto alla trama immersiva, oltre alla straordinaria abilità di trasporre la sua passione per il cinema nei vari obiettivi narrativi del videogame, che pare essere più un lungometraggio in corsa in qualche Festival anziché un gioco, si aggroviglia a tematiche, dialoghi, immagini, video che sono direttamente ascrivibili e riconoscibili come meme, in grado di trasmettere informazioni da cervello a cervello, e creare dunque una replicabilità. Non è un caso se lo stesso Kojima ha prodotto sequel, espansioni e spin-off di Metal Gear dal 1987 fino al 2018.
Il gene del talento e i miei adorabili meme non è un libro sui videogames, non è nemmeno l'autobiografia di una grande mente, è una testimonianza di come la cultura innesta nelle nostre menti valori estranei eppure riconoscibili e familiari, tanto da avere la necessità di doverli condividere e diffondere. Certo è che non tutti i meme sono trasmissione di positività, divertimento o riflessione. Molti posso essere atroci e feroci, rovinando le vite reali degli interessati; sì, vite reali poiché il meme di fatto esiste in un mondo altro, intangibile, nondimeno, nello stesso luogo dell’esistenza.
«La vostra identità non si esaurisce nel vostro giudizio, quindi non dovete preoccuparvi di sbagliare o di andare contro l’opinione altrui. Pensate a quant’è meraviglioso trovare qualcosa di meritevole con i vostri occhi e la vostra testa! Magari ciò che voi trovate valido e ciò che trovo valido io è completamente diverso, e va bene così» (p. 17).
Olga Brandonisio
Letture consigliate per un migliore approfondimento:
La politica pop online. I meme e le sfide della comunicazione politica
di Gianpietro Mazzoleni, Roberta Bracciale
(Il Mulino, 2019)
Virus of the Mind. The New Science of the Meme
di Richard Brodie
(Hay House, 2011)
The World Made Meme. Public Conversations and Participatory Media
di Ryan M. Milner
(MIT Press, 2018)