Madre notte
di Kurt Vonnegut
Bompiani, 2021
pp. 238
€ 13,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Titolo
originale: Mother Night
Traduzione
di Vincenzo Mantovani
Forse
proprio in virtù di questa capacità di
mistificazione o trasfigurazione del reale, l’americano che avrebbe potuto
condurre una vita ben diversa, stare in qualche modo dalla “parte giusta” della
storia, si trova ora prossimo al banco degli imputati per essere stato “un uomo che servì troppo apertamente il male
e troppo segretamente il bene, il crimine del suo tempo” (p. 12).
Giovane
ambizioso e di successo negli anni del regime, sposato alla figlia del capo
della polizia di Berlino, Howard era diventato infatti una delle principali voci della propaganda radiofonica nazista,
talmente abietto e convincente nelle sue pubbliche esternazioni da aver
contribuito tanto quanto i principali gerarchi, di cui peraltro era
frequentatore, a plasmare il volto del
Reich e del suo messaggio distorto. Nessuno può credere ora che, per tutta
la durata della guerra, egli sia stato una
spia americana. Essendo stato reclutato da un ufficiale misterioso, che si
era presentato con uno pseudonimo e che pare adesso irrintracciabile, ha dovuto
cavarsela da solo sul terreno sempre più sdrucciolevole dell’ascesa del
Nazionalsocialismo, rinnegato dal governo americano che si finge, o forse è,
inconsapevole della sua missione:
Ingannai tutti. Cominciai a camminare impettito come se fossi il braccio destro di Hitler, e nessuno vide mai l’anima onesta che nascondevo nel profondo di me stesso. (p. 52)
Il
problema di fingere tanto a fondo, e tanto bene, è che si finisce per conformarsi all’immagine che si esibisce al mondo.
Ecco perché Vonnegut, così renitente a ogni moralismo, ci suggerisce fin dalla
prima pagina la morale dell’opera: “noi
siamo ciò che fingiamo di essere, perciò dobbiamo stare molto attenti a ciò che
fingiamo di essere” (p. 5).
La
voce di Campbell era talmente persuasiva da avergli creato, sia durante il
Reich che nel lungo periodo del dopoguerra che ha trascorso a New York,
nascosto e dimenticato, a scontare il suo Purgatorio personale, un vero e proprio stuolo di seguaci,
fanatici, neonazisti e suprematisti bianchi che basano il loro programma
ideologico su quanto lui stesso ha detto. Il suo perseguire segretamente il
bene non gli ha affatto impedito di porsi
pubblicamente al servizio del male e di giovare alla sua causa. Il
narratore non vuole giustificazioni, anche se cerca di spiegare la portata
quasi imprevista del proprio operato riconducendone gli effetti alla debolezza
connaturata all’animo umano, al bisogno dei gregari di inserirsi in un gruppo
che pensi per loro, di trovare una fede a cui immolare il proprio spirito
critico:
Io, come speaker radiofonico, avevo sperato di essere soltanto ridicolo, ma viviamo in un mondo in cui essere ridicoli non è facile: ci sono troppi esseri umani che non hanno voglia di ridere, che non riescono a pensare, che vogliono solo credere, arrabbiarsi, odiare. Troppa gente aveva voluto credere in me. Dite quello che volete del sublime miracolo di una fede senza dubbi, ma io continuerò a ritenerla una cosa assolutamente spaventosa e vile. (p. 152)
E se il personaggio pare sufficientemente cinico e disilluso da non poter
essere riscattato, nonostante la sua piena
coscienza del male fatto, i suoi ragionamenti diventano centrali nella più
ampia riflessione autoriale sui meccanismi che hanno portato all’ascesa del
nazismo, ma anche sui pericoli che corre la società contemporanea, che troppo
poco sembra aver imparato dalle esperienze passate. Il dialogo tra Campbell e
Eichmann, surreale e grottesco come
sanno essere le migliori pagine di Vonnegut, porta a riflettere proprio su
questi meccanismi, sulla distorsione mentale che agisce in chi perde la
capacità di distinguere il bene dal male, il vero dal falso, l’etica dal suo
radicale stravolgimento:
Tutto viene processato dalla mente di Eichmann senz’alcuna discriminazione, come una cartuccia di pallini sparata da un archibugio. Il mio caso è diverso. Quando dico una bugia io me ne rendo sempre conto, e posso immaginare le crudeli conseguenze nelle quali incapperà chiunque creda alle mie bugie. (p. 156-157).
Nell’ottica
di Howard W. Campbell junior, lui è quindi un criminale peggiore di Eichmann,
perché mentre l’altro non è stato affatto conscio del proprio agire,
incarnazione di quella banalità del male
di cui dice anche Hannah Arendt, lui ne è stato consapevole in ogni istante. Al
tempo stesso, ora che tutto è finito, o dovrebbe esserlo, non può fare a meno
di interrogarsi con spietata onestà su cosa lui sia diventato alla luce delle
scelte compiute: può l’intento profondo del bene giustificare un grande male? La
totale adesione alla maschera può essere giustificata nell’ottica di una
superiore finalità morale, o diventa pure convenienza?
“Tre persone in tutto il mondo mi conoscevano per quello che ero…” dissi. “E tutti gli altri…” Alzai le spalle.“Anche loro la conoscevano per quello che era,” disse bruscamente lui.“Quello non ero io,” dissi, sorpreso dal suo tono sgarbato.“Chiunque fosse,” disse lui, “era uno dei più malvagi figli di puttana che siano mai vissuti”. […]“Lei crede che io fossi un nazista?” dissi.“Certo che lo era,” disse. […] “Se la Germania avesse vinto, se avesse conquistato il mondo…” s’interruppe e alzò la testa. […]“Come sarei vissuto?” dissi. “Quali sentimenti avrei provato? Cos’avrei fatto?” (p. 174)
Non c’è una vera risposta alla domanda delle domande, e Vonnegut come sempre va oltre il giudizio semplicistico per mettere il suo
lettore di fronte alla complessità del reale. La stessa opera del resto va in
questa direzione. L’unica possibilità per il suo pubblico, di fronte ai suoi
romanzi maturi, è quella di affidarsi, abbandonarsi ai salti spazio-temporali,
all’idea di una trama non lineare che deve essere ricostituita per somma di
tasselli, che progressivamente si combinano in un insieme prima imprevedibile.
Lo stesso si può dire per le riflessioni condotte dai personaggi, che si
configurano in un insieme coerente solo retrospettivamente.
Attraverso
le vicende di Howard W. Campbell, “americano
di nascita, nazista di reputazione e apolide per inclinazione” (p. 19),
l’autore può decostruire il concetto della patria e dei fondamentalismi che
nascono e vengono portati avanti nel suo nome, riflettere su quale sia l’anima
della vera malvagità:
Ci sono mille buone ragioni per combattere, […] ma neanche una per odiare senza riserve, e per credere che Dio onnipotente in persona sia al tuo fianco e possa odiare come te. Dov’è il male? È quella grossa parte di ogni uomo che vuole odiare senza limiti, che vuole odiare e avere Dio dalla sua. È quella parte di ogni uomo che trova così attraente ogni forma di brutalità. (p. 223)
A chi gli chiede se vuole essere punito,
Campbell risponde che vuole essere processato,
e tale distinzione non è sottile o casuale, poiché il giudizio definitivo su se stesso lo può formulare solo lui stesso,
nel momento del confronto con la propria coscienza; è da questo processo che può derivare la sola vera punizione, o
l’eventuale assoluzione. Per Campbell allora il peggior crimine è forse quello
di non essere stato fedele a se stesso,
di essersi perso e aver perso ogni senso,
ogni direzione, in una schizofrenia
fatta sistema.
Dietro
l’apparente leggerezza della prosa di Vonnegut c’è sempre lo strale scagliato
in faccia al lettore, che si rende conto che questa schizofrenia indotta,
spesso autolegittimata, non gli è estranea, ma è qualcosa che si può
riconoscere fuori e dentro di sé. Attraverso un titolo che rimanda all’oscurità
descritta dal Mefistofele goethiano, matrice della luce e della materia e
pronta a ringhiottire tutto, l’autore ci indirizza un monito asciutto, essenziale, che ci aiuta a comprendere la
società in cui viviamo.
Carolina Pernigo
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