La fabbrica
di Hiroko Oyamada
Neri Pozza, giugno 2021
Traduzione di Gianluca Coci
pp. 208
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Marta Olivi
Con quanta facilità, oggi, si affibbia l’aggettivo di “distopia” a qualsiasi mondo letterario che, modificando leggermente la nostra realtà, punta a farne una satira. Eppure, se volessimo tornare all’archetipo del genere utopico e distopico, cioè la costruzione di città ideali, la fabbrica di cui ci parla Hiroko Oyamada rientra proprio in questo schema: più che una fabbrica è, in realtà, una città in tutto e per tutto, dove gli innumerevoli lavoratori possono vivere, mangiare e intrattenersi, oltre che lavorare. Peccato che decidere se questa città sia desiderabile e dunque utopica o indesiderabile e dunque distopica sia estremamente difficile.
Il romanzo segue infatti le vicissitudini lavorative di Yoshio, neolaureata, Yoshiko, ricercatore rigettato dal mondo accademico, e Ushiyama, tecnico informatico licenziato in tronco: ciascuno dei tre si ritroverà a lavorare per “la fabbrica”, azienda senza nome riconosciuta ovunque in Giappone, dove chiunque aspira a lavorare, sebbene non sia affatto chiaro di cosa si occupi davvero. Nonostante la fama dell’azienda, tutti e tre i nostri protagonisti dovranno scendere a patti con le proprie aspirazioni e desideri, nel momento in cui entrano nell’enorme edificio grigio: Yoshio, nell’assumere il suo nuovo ruolo di distruggitrice di documenti (avete letto bene!), dovrà accettare un contratto a tempo determinato, affidandosi di nuovo al ciclo di precarietà che è stata la sua vita fino a quel momento e che sperava di interrompere col suo nuovo impiego; Yoshiko lavora senza obiettivi e senza sforzo, in totale controtendenza al suo istinto da ricercatore; e Ushiyama, da esperto di informatica, deve armarsi ora di carta e penna per correggere bozze di dubbia utilità.
Insomma, ognuno di loro svolge un lavoro fine a se stesso, ripetitivo e poco soddisfacente, che nel rispecchiare l’ideale meccanicistico della catena di montaggio fordiana, in realtà ci parla di condizioni di lavoro ben più vicine al ventunesimo secolo in cui viviamo: la precarietà, l’impossibilità di aumentare di livello, l’essere costantemente iperqualificati per ciò che il mercato del lavoro offre, la necessità di abbandonare i propri desideri per accettare quello che si trova. Proprio quel mercato del lavoro di cui tutti nel romanzo parlano, quella “crisi” e quella mancanza di impieghi, fanno da sfondo ideale per le vite grigie dei tre protagonisti, la cui sfera affettiva, umana, volitiva non viene mai davvero a galla: se i loro desideri e aspirazioni professionali sono stati annichiliti dall’ingresso in fabbrica, è evidente che anche quando il romanzo ci mostra le loro relazioni familiari e non, noi li conosciamo come lavoratori, mai come fratelli, sorelle, fidanzati, o figli.
La viscosità della loro occupazione invade ogni area della loro vita rendendoli freddi, concreti, attenti solo a ciò che è materiale, e non è un caso che il romanzo indugi moltissimo sulle abitudini alimentari di ciascuno di loro: le occupazioni intraprese dai nostri tre protagonisti sono così alienanti che l’unica motivazione che essi potrebbero avere per recarsi ogni giorno al lavoro è il puro guadagno economico, materializzato nell’onnipresente cibo che abita ogni pagina dell’opera. Insomma, nonostante la propaganda che la fabbrica fa di una cultura aziendale familiare e inclusiva senza capi particolarmente cattivi né gerarchie troppo pressanti, tramite la descrizione delle attività giornaliere dei protagonisti il romanzo instilla una sottile angoscia che culmina nell’ultima pagina, quando il realismo magico entra in campo, riprendendo un altro tema che aveva corso sottopelle per tutta l’opera, quello della fauna che vive nella fabbrica, e mostrandoci tutta la potenza di questo simbolismo concreto che per tutto il romanzo aveva ricorso al cibo e agli animali per metaforizzare la vita umana in un contesto lavorativo così alienante. Mostrandoci come sarebbe la vita se i nostri unici obiettivi fossero lavorare, mangiare, dormire… un po’ come fossimo animali.
Marta Olivi