La mia proprietà privata
di Mary Ruefle
trad. Gioia Guerzoni
NN Editore, 25 agosto 2021
pp. 128
€ 14,00 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
In una tipica poesia scritta da me, una donna è da sola, seduta a tavola, e non sta facendo assolutamente nulla. Quando vede una mosca che zampetta sul tavolo, si mette a chiacchierare con lei. Poi succede qualcosa di terribilmente drammatico, e la poesia finisce. Questo succede giorno dopo giorno, tanti giorni quanti sono le poesie in un libro, e la lascia esausta.
Mi sembra che Mary Ruefle, scrittrice e poetessa americana, si sia descritta in maniera abbastanza icastica, in questa breve Autocritica contenuta ne La mia proprietà privata, raccolta appena pubblicata da NN Editore nella traduzione di Gioia Guerzoni.
La sua capacità immaginifica nasce dalla solitudine e da una noia vigile, l'interesse per il fantastico (e le fantasticherie) non si risolve mai facilmente in una serenità orizzontale, ma in una pace sorniona minacciata da nuvole incombenti.
Ne deriva un turbamento costante, una sensazione di stanchezza causata da emozioni anche violente che la poetessa stessa sa procurarsi, come tempeste d'acqua in un bicchiere.
La mia proprietà privata è una raccolta di prose poetiche dove sembra tutto in bilico fra l'ironia e la prostrazione, fra l'incanto delle piccole cose e la paura che niente, grande o piccolo che sia, abbia senso.
Il testo che dà il titolo alla raccolta è un lungo interrogarsi sul perché nessuno al giorno d'oggi mostri interesse per le "teste rimpicciolite", le tsantsa, oggetti artistico-rituali che alcune tribù dei territori dell'Amazzonia ricavano dalle teste dei morti, svuotate del teschio e conciate affinché conservino la pelle, ridotte alle dimensioni di un'arancia e riempite di sassi e sabbia.
Si susseguono riflessioni, immagini, pensieri. Seguendo la storia del Conte dello Staffordshire che tentò di perseguire "l'immortalità dell'arte" facendo dipingere le pagine del suo romanzo su centoquattro piatti da portata o quella di un foulard che vola nel cielo, riflettendo su un milkshake corretto con sale e pepe o sui domestici degli scrittori più incredibili del mondo.
Si susseguono riflessioni, immagini, pensieri. Seguendo la storia del Conte dello Staffordshire che tentò di perseguire "l'immortalità dell'arte" facendo dipingere le pagine del suo romanzo su centoquattro piatti da portata o quella di un foulard che vola nel cielo, riflettendo su un milkshake corretto con sale e pepe o sui domestici degli scrittori più incredibili del mondo.
Qua e là spuntano testi sinestetici sui vari colori della tristezza.
«Quella gialla è la tristezza della sorpresa. Di uova e sonnellini, delle piume di cigno, dei sacchetti profumati e della salviettine umide.»
«La tristezza arancione è la tristezza dell'ansia e dell'inquietudine, di un palloncino arancione che vola sopra vette innevate, la tristezza delle capre selvatiche, la tristezza di contare, come quando si teme che un altro carico di pensiero stia per entrare in casa» oppure la tristezza grigia «delle graffette e degli elastici, della pioggia e degli scoiattoli, della gomma da masticare, di pomate e unguenti e cinema».
Li credevo la parte più debole, più zuccherosa, del libro, prima di leggere la nota dell'autrice che dice: «In ciascuno dei brani sui colori, se sostituite la parola tristezza con felicità non cambia niente».
E allora ho trovato la mia chiave di lettura. La riflessione sulla mancanza di senso che diventa essa stessa il senso. Non particolarmente consolatorio, forse nemmeno innovativo, eppure. «Bisogna rifiutare tutto per riuscire a vivere.»
E allora ho trovato la mia chiave di lettura. La riflessione sulla mancanza di senso che diventa essa stessa il senso. Non particolarmente consolatorio, forse nemmeno innovativo, eppure. «Bisogna rifiutare tutto per riuscire a vivere.»
Come scrive Gioia Guerzoni nella nota del traduttore - due tre paginette preziose perché aiutano a vedere la donna dietro al testo (e se spesso i testi parlano da soli, altrettanto spesso si ha il desiderio di sapere di più sulla mano che li scrive) – : «la scrittura della Ruefle può provocare uno strano timore reverenziale – il misto di paura e fascino che provi davanti a un marziano – però a volte ti fa scoppiare a ridere. E soprattutto ti fa perdere l'orientamento. A un certo punto non capisci più dove sei e segui solo le immagini, come i sassolini e le briciole di Hansel e Gretel».
Poi racconta di averla cercata, per chiederle conferma di alcune traduzioni, con complicati mezzi perché la scrittrice non possiede un computer e per contattarla si può scrivere alla sua casa editrice o «incontrare per strada qualcuno che conosco di persona» (sic).
Poi racconta di averla cercata, per chiederle conferma di alcune traduzioni, con complicati mezzi perché la scrittrice non possiede un computer e per contattarla si può scrivere alla sua casa editrice o «incontrare per strada qualcuno che conosco di persona» (sic).
In una delle lettere di risposta, arrivata con una lentezza a cui non siamo più abituati, si è sentita chiedere se un'isola greca fosse solida o spugnosa.
E così ha capito che per tradurre Mary Ruefle (per leggerla, anche, aggiungerei) bisogna vedere ciò che vede lei, toccarlo coi piedi, annusarlo con le mani, «immaginando tutto con i sensi ribaltati».
È matta, ha pensato Gioia Guerzoni. Non vedo l'ora di conoscerla.
Ed è forse più o meno la migliore descrizione che si possa farne e il principale motivo per cui vale la pena di leggerla oggi.
Giulia Marziali
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