Una buona scuola
di Richard Yates
minimum fax, 2009
pp. 237
€ 12,50
Titolo originale: A Good School
Traduzione di
Andreina Lombardi Bom
Non molti hanno sentito parlare della Dorset Academy, nel Connecticut, ma si dice che sia “una buona scuola”, che tutela la personalità dei suoi (pochi) studenti. Chi ci arriva in visita, se particolarmente accorto, nota subito un carattere di artificialità, un’impronta alla Walt Disney che dovrebbe mettere in guardia, se associata alla tendenza ad accogliere gli allievi che le altre scuole non vogliono, in cambio di un cospicuo contributo economico.
Ad andarci, iscrivendosi al terzo anno e grazie a una retta agevolata, è il quindicenne William Grove; il carattere autobiografico del personaggio è denunciato dall’impiego della prima persona nel prologo e nell’epilogo, anche se la sua voce lascia spazio, nel resto del volume, a una narrazione esterna con focalizzazione interna variabile, che permette di mettere in rilievo, progressivamente, il sentire dei diversi comprimari – alunni e anche professori.
Grove non è certo un eroe del campus: è goffo, trasandato, incapace di badare a se stesso e non eccelle negli studi né negli sport; in più ha un fisico acerbo che attira i tormenti dei compagni del dormitorio. La sua reazione sguaiata a un brutto episodio di nonnismo gli produce la fama di tipo non proprio raccomandabile e ha come conseguenza la sua iniziale emarginazione. Anche il suo riscatto, attraverso l’ascesa all’interno del giornalino scolastico, il Dorset Chronicle, avviene più per caso che per uno slancio attivo da parte sua.
La sua condizione di apparente irredimibile cambia proprio in virtù delle caratteristiche specifiche del collegio che lo ospita, che è in crisi economica, non ha docenti laureati in università così prestigiose, ma lascia tempo e spazio di formarsi anche a chi altrove potrebbe non trovarlo. È lì che si intravede in nuce quello che il giovane Grove (ma forse anche il giovane Yates) diventerà.
Va detto che non è tutto oro quello che luccica. “Qui incoraggiano le attività parascolastiche a prescindere dal fatto che uno sia bravo a scuola o no. Credono nell’individualità” (p. 123), spiega Bill al padre in visita, ma è poi vero?, viene da chiedersi nel leggere le cronache della quotidianità della Dorset.
Anche nel momento in cui viene meno l’obbligo della divisa, le scelte dei singoli vengono osservate e giudicare dalla collettività; qualunque forma di diversità viene sanzionata dal biasimo sociale o attraverso diretti atti di bullismo, e il mormorio e il pettegolezzo accompagnano ogni movimento dei singoli. La vita dei personaggi si muove quindi in un equilibrio precario tra convenzionalità e originalità, e non è mai dato di sapere quale dei due poli eserciterà maggiormente la sua attrazione.
Più che per gli eventi, che non sono così rilevanti, il romanzo funziona per lo stile in cui è scritto, per il gusto per la descrizione che crea una galleria di ritratti pungenti e precisi, per la capacità di cogliere il dettaglio che rischiara e dà senso a una scena o a un personaggio, per la sensibilità per i dialoghi e per i caratteri dei singoli.
Per buona parte del romanzo, si avvertono gli echi della seconda guerra mondiale, che rimane sullo sfondo e si fa viva nella scuola solo nella conta degli ex allievi caduti o dei diciottenni che si allenano blandamente per arruolarsi. Al tempo stesso, tuttavia, questa presenza incombe oscuramente sui sogni e le aspirazioni dei giovani protagonisti:
[il Circolo degli Anziani] era un luogo per imparare come comportarsi all’università – a parte che, com’era ovvio, nessun allievo della classe ‘43 o ‘44 poteva fare progetti per l’università finché non terminava la guerra. (p. 139)L’elefante nella stanza non si può ignorare per sempre, e infatti la tragedia deflagra in modo inaspettato, colpendo uno, forse il migliore di loro. E questo non è che l’inizio, perché per i diplomandi dell’ultimo anno è incipiente la leva obbligatoria, che non tutti riescono ad accogliere con entusiasmo patriottico, facendo sospettare, ad alcuni membri del corpo docente, il fallimento della loro missione educativa.
In tutto ciò, Grove cresce e cambia, impara a essere uomo, per quanto la cosa non gli riesca facile o naturale, e richieda attenta osservazione e puntuale esercizio di imitazione degli altri, più sicuri e popolari. Egli mantiene, pur essendo diventato direttore del Chronicle, anche una scarsa capacità di interpretare correttamente la realtà:
“Sei proprio un tipo strano, Grove. […] Cioè, sei piuttosto bravo a scrivere e fai uscire il giornale sempre quando deve, ma spesso non capisci un accidente di quello che ti succede intorno.” (p. 193)Cerca però di rettificarsi, di limare le proprie asperità, come fa con editoriali che sono sempre più asciutti e più centrati, a dare già l’idea di quella ricerca di concretezza che è propria anche dello stile yatesiano. È forse proprio in questo apprendistato progressivo e non completato – se non grazie al tempo e al resto della vita – che si vede l’effetto di quella che dopotutto, in qualche modo, può essere considerata davvero una buona scuola.
Carolina Pernigo