Vivienne Westwood. Sfilate
di Alexander Fury
traduzione dall’inglese di Maura Parolini e Matteo Curtoni
L’ippocampo, 2021
pp. 632
€ 49,90 (cartaceo)
Pare – o meglio, è lei stessa ad averlo dichiarato – che il suo accessorio preferito sia un libro, che non c’è luogo al mondo che ami più di una biblioteca e che la lettura sia la più grande passione della sua vita, addirittura più di quella moda che da cinque decenni esatti ne è vocazione e ragione. Con Exploration, collezione Primavera/Estate 2001, ha persino portato gli scaffali direttamente in passerella, sia come fondale scenografico dello show sia direttamente su jersey e sartoria morbida, dando vita a una vera a propria “stampa da legatoria”: non un modo come un altro, questo, bensì il modo più a prova di equivoco per esplicitare (qualora non lo fosse stato ancora abbastanza) come ogni sua ispirazione fosse nata e ancora nascesse a partire dalle pagine di qualche volume (e a citare gli autori e gli argomenti della sfilata in questione si andava da Aristotele ad Aldous Huxley passando per Bertrand Russell, mentre i volumi sul Settecento francese e i testi sulla Wallace Collection facevano numero insieme con gli studi di entomologia di epoca vittoriana).
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Foto di Cecilia Mariani
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Se c’è una caratteristica che fin dal suo esordio ufficiale in passerella nel lontano 1981 contraddistingue la stilista di cui stiamo parlando, questa è proprio l’indole spiccatamente narrativa: perché c’è sempre una storia, un concetto, un’idea o un’ideale all’origine di un suo vestito, di una sua calzatura o di una sua campagna pubblicitaria; un’urgenza discorsiva che traduce in abiti e accessori il bisogno di avere a che fare con persone intellettualmente stimolanti e l’imperativo categorico dell’imparare/insegnare/collaborare sempre e comunque. Che poi nel corso dei decenni il tutto sia stato da lei tradotto nel modo più originale, autentico, avanguardista, trasgressivo, innovativo, anticonformista e provocatorio possibile… beh, è proprio questo che l’ha distinta come Vivienne Westwood, ed è per la stessa ragione che chi veramente la ammira non perderà di certo l’occasione di dimostrarlo nel modo più conseguente, ovvero acquistando (e sì, per l’appunto leggendo) la monografia Sfilate, appena data alle stampe in Italia dalla casa editrice L’ippocampo; un libro in cui persino il magafont, ovvero il font utilizzato al suo interno e ispirato alle molte versioni e ai diversi caratteri del font Times creati nel corso degli anni, è stato realizzato appositamente dallo studio Fraser Muggeridge con l’intento di trasmettere “un feeling anarchico”.
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Foto di Cecilia Mariani
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Ultima arrivata all’interno della collana dedicata ai grandi nomi del fashion system internazionale – sono già in libreria i lavori su Yves Saint-Laurent, Louis Vuitton, Prada, Dior e Chanel – anche questa pubblicazione incentrata sulla stilista inglese nata l’8 aprile 1941 a Tintwistle si struttura secondo l’impostazione dei precedenti contributi: a un primo saggio introduttivo, stavolta a firma di Alexander Fury, segue l’analisi delle singole collezioni di moda a partire dal debutto e fino all’anno in corso, con ogni semestralità (Fall/Winter e Spring/Summer) commentata dal curatore e corredata dagli scatti originali tratti dalle rispettive sfilate (oltre 1300 bellissime immagini che, seppur numerose, rappresentano tuttavia una selezione, dal momento che non equivalgono mai alla totalità delle uscite effettive in passerella). In più, per la gioia di chi ama la prima persona, in questa occasione la stessa Vivienne Westwood e il suo compagno di vita e di lavoro di origine austriaca Andreas Kronthaler (26 gennaio 1966) firmano rispettivamente due brevi autobiografie, anche a suggello di come la maison si regga sul perfetto connubio tra la sua fondatrice e colui che dal 1988 ne fu dapprima allievo alla Scuola di Arti Applicate di Vienna e poi, dal 1991, vero e proprio partner in crime e in life: al punto che dalla collezione Sexercise (Autunno/Inverno 2016/2017) il nuovo nome del marchio è “Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood”, e persino il tartan scelto per impreziosire lo spesso cartoncino telato della cover del volume, messo a punto per la collezione Anglomania (Autunno/Inverno 1993/1994), è stato battezzato “Blue McAndreas” proprio in suo onore.
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Foto di Cecilia Mariani
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Massimalista inside, Vivienne Westwood si sottrae da sempre a qualsiasi tipo di sintesi o semplificazione del proprio pensiero e operato. Non può essere che così, d’altra parte, per una donna che ha fatto dello svisceramento della complessità la sua stella guida (non a caso è stata sia maestra elementare sia docente d’accademia), rifiutando ogni manifestazione teorica o pratica della comodità, della banalità e di quella disonestà intellettuale che è perfetta premessa di ogni ammaloramento sociale, culturale, economico e politico; rifiutando cioè, per dirlo con l’espressione più esaustiva, ogni forma di status quo. E se certamente è possibile indicare elementi coerenti e costanti nel suo operato, il modo migliore per renderle davvero giustizia è forse proprio quello totale e onnicomprensivo che, come per certi versi accade in questo libro, si sofferma con cura non solo su ogni collezione, ma addirittura su ogni dettaglio della stessa.
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Foto di Cecilia Mariani
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Nello scritto introduttivo Alexander Fury non manca di indicare i principali tratti distintivi del mood westwoodiano, tra i quali, in omaggio a quella che si può definire una sorta di “primogenitura”, vanno annoverati la creazione dello stile "New Romanticism", l’introduzione dello streetwear in passerella con l’utilizzo di stampe graffiti e la comparsa delle prime sneakers, l’invenzione della cosiddetta “mini-crini” (la gonna a palloncino), la messa a punto del look da “Principal Boy” (convivenza di leggins e capi di sartoria) e soprattutto il principio concettuale del “sotto-sopra”, con l’esaltazione di corsetto e reggiseno da portare non a pelle ma su altri capi di abbigliamento (una rivoluzione che piacerà molto a Jean Paul Gaultier e, con lui, a Madonna). Tuttavia, per quanto importanti esse siano, sarebbe oltremodo riduttivo limitarsi alla citazione di queste “prime volte” destinate a finire nei manuali di storia della moda, perché fin degli esperimenti degli anni Settanta nell’ambito della sottocultura punk condotti con il fidanzato e socio in affari del tempo (Malcolm McLaren, un impresario musicale a cui fu legata per diversi anni) lo spirito riottoso e rivoluzionario della stilista si è esplicitato al meglio nella sua forma mentis, e dunque in tutto ciò che sempre ha preceduto disegno, taglio e cucito (ma anche abbozzo, strappo e spillatura).
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Foto di Cecilia Mariani
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A far sì che Vivienne Isabella Swire si imponesse prima in patria e poi nel mondo come Vivienne Westwood, e a determinare anche la sua affermazione femminile in un ambiente come quello della moda a dominanza maschile, sono stati la sua opposizione alle convenzioni e la perseveranza nell’avere e nell’esprimere la propria opinione; l’indifferenza nei confronti del lavoro dei propri contemporanei e l’ambizione di proporre un modello originale di donna carismatica e larger than life; lo sguardo penetrante e curioso nei confronti del passato e il rifiuto categorico dei mortificanti trend stagionali; la capacità di evolversi e contraddirsi grazie allo studio e all’analisi continua del patrimonio culturale e artistico generalmente inteso e alla percezione delle urgenze del proprio tempo; una sensibilità, quest’ultima, che nasce proprio dall’interpretazione “classica” della politica come coinvolgimento nella società, e che senza soluzione di continuità parte dalle prese di posizione del punk e arriva all’impegno in prima persona a favore delle cause ambientaliste dei tempi più recenti (il noto slogan “compra meno, scegli bene, fallo durare” non è mai stato così attuale).
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Foto di Cecilia Mariani
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Soprattutto, quando il pensiero entra nell’orbita del pianeta VW (e a tale proposito si dia un’occhiata anche al simbolo del marchio…), ciò di cui non si può tacere è la già citata onnipresenza della narrazione (destinata a influenzare in modo irreversibile la moda britannica contemporanea, da John Galliano a Lee Alexander McQueen), la contaminazione coraggiosa e irriverente tra culture (a partire dalla Grecia antica, culla della filosofia occidentale) e la passione per l’arte visiva, specialmente per quella francese: iconici i suoi omaggi letterali al Seicento e al Settecento, al Barocco e al Rococò, al Rinascimento e all’Ancien Régime, ma anche alle origini germaniche del marito e alle celeberrime Wiener Werkstätte; senza dimenticare, ovviamente, la sua pioneristica collaborazione con Keith Haring nel 1989, il suo rapporto con gli artisti contemporanei (si pensi all’amicizia con la YBA Tracey Emin, che sfilò per lei in un’occasione) e in particolare quello di lungo corso con l’artista canadese Gary Ness, suo mentore per la cultura transalpina in generale. Per quanto riguarda poi l’audacia erotica che da sempre caratterizza l’approccio della fashion designer, meglio non ridurre il tutto al desiderio meramente scandalistico della prima ora per considerare invece e con maggiore cura l’intelligenza “carnale” con cui il marchio ha reinterpretato il rapporto tra abiti e corpo: una convivenza all’insegna del mutamento reciproco, capace di restituire il senso di una liberazione a favore di una sessualità “potente e moderna”, «riportando così alla luce la licenziosità ribollente di un passato rimasto nascosto come una statua sotto una foglia di fico vittoriana» (p. 14). Anche perché del resto, e come ebbe a dire la stessa stilista, «la moda significa ritrovarsi nudi prima o poi» (p. 14).
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Foto di Cecilia Mariani
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Decisamente oltre ogni idolatria fine a se stessa – ovvero, per intenderci, oltre ogni approccio al “caso” Westwood inteso come semplicistico e mitizzante “WOW!” – il volume a cura di Alexander Fury è un contributo serio e scrupoloso, in cui i testi di commento alle singole collezioni fanno il paio con gli apparati in coda al volume, dalla bibliografia ai crediti della documentazione fotografica, elemento non secondario, quest’ultimo, per un tomo con centinaia di immagini (anche se forse proprio il fatto che queste ultime rappresentino solo una selezione, e non la totalità, dei modelli principali costituisce l’unico vero “difetto” di questo e degli altri libri della collana). Volendo, lo si può sfogliare interpretando la summa delle collezioni come una lunga miscellanea composta da racconti brevi, dialoghi filosofici, saggi bizzarri e finanche pamphlet polemici: nel flusso immaginativo e discorsivo sub specie vestimentaria che la stilista inglese fa scorrere da cinquant’anni a questa parte c’è difatti una varietà di generi, trame e intrecci che nulla ha da invidiare a quella della British Library o del Victoria and Albert Museum (e ciò sia detto solo per omaggiare una patria che la stilista, convinta oppositrice della Brexit, considera ancora Europa a tutti gli effetti).
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Foto di Cecilia Mariani
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Quello appena pubblicato da L’ippocampo nella sua versione italiana è dunque tutt’altro che un libro frivolo dedicato ad altrettante frivolezze: non potrebbe esserlo nemmeno volendo, dal momento che disconoscere il portato culturale di un simile percorso creativo significherebbe negarne l’origine più pura, ovvero il desiderio di conoscenza che da sempre ne determina l’accadere. Al contrario, questa monografia aiuta a muovere passi importanti (sulla passerella e non, dentro e fuori dalla metafora della sfilata in sé) verso una via d’accesso al modus westwoodiano che rende giustizia a decenni di studio e militanza, rigore e stravaganza. Se si vuole, nulla di strano a considerare questo incontro anche come una partita a scacchi con quella che senza ombra di dubbio resta la vera Regina della moda inglese; una sovrana tutt’altro che distante e reticente, e anzi – a proprio rischio e pericolo – sempre piuttosto loquace, dal momento che «quando si parla con lei, anche alla domanda più breve si ottengono lunghe risposte» (p. 9).
Cecilia Mariani