Alfredino, laggiù
di Enrico Ianniello
Feltrinelli, 2021
pp. 272
€ 17,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
“Sono sceso nelle frattaglie della terra, mi sono fatto calare nelle viscere dei ricordi e ci ho trovato la mia innocenza in forma di Alfredino” (p. 154)
Andrea ha poco più di cinquant’anni e una vita che sembra perfetta. Il romanzo
si apre su una scena idilliaca: due genitori felici, il decimo compleanno dei
figli gemelli, una trattoria di campagna in cui festeggiare con gli amici di
sempre, tra canti, brindisi, e discorsi commossi. Poi, un piccolo evento traumatico – Marco, il figlio, si ferisce
inciampando in una recinzione – e quello che potrebbe trascorrere come un fatto
da ricordare nella mitologia familiare diventa per il protagonista e narratore pietra d’inciampo. Sì, perché quando il
suo bambino gli mette le braccia al collo e gli chiede aiuto, il padre ripensa
a un altro bambino, e a un altro papà
impotente: l’Alfredino citato nel titolo è infatti Alfredino Rampi, che a soli
sei anni, nel 1981, era morto in un pozzo profondissimo nei pressi di
Vermicino, dopo due giorni in cui i soccorritori avevano cercato invano di
raggiungerlo per tirarlo fuori. L’episodio di quel bambino, spettacolarizzato
in diretta televisiva, aveva tenuto congelata al tempo l’intera nazione,
suscitando un’ondata di empatia e commozione collettiva. La copertura mediatica
insistita per tutta la durata dei tentativi di estrazione aveva reso Alfredino figlio e fratello di tutti,
simbolo impossibile da dimenticare, elemento
di un riconoscimento viscerale, doloroso:
Sai perché è stata così potente questa vicenda, secondo me? […] Nessuno lo ha mai visto, Alfredino. Cioè, ne siamo rimasti così colpiti perché ha toccato in modo simbolico delle categorie archetipiche: l’amore, la mamma, il futuro, l’infanzia, il buco nero… […] Siamo diventati tutti Alfredino. Quello è diventato il nostro nome, quella voce era la nostra, di foto in spiaggia con la canottiera ne abbiamo tutti. E allora abbiamo avuto tutti paura di poter cadere in un buco, prima o poi, e di rimanerci per sempre senza che la mamma o il papà o i pompieri o Mazinga o l’Uomo Ragno potessero venire a salvarci. È stato il nostro modo, traumatico, di diventare grandi. (p. 59)
Nei giorni successivi all’incidente di Marco, quella di Alfredino diventa una vera e propria ossessione per Andrea, un
pensiero che occupa e divora le giornate, che condiziona il comportamento, che
spinge a profonde revisioni esistenziali. Che persona sono per gli altri e per
me stesso? Che padre sono per i miei figli? Qual è il mio senso etico? Cosa è
rimasto dei progetti e delle aspettative della gioventù? Domande come queste, non
espresse ma intuite, e senza risposte, muovono un’angoscia e una rabbia inedite, tormentano i sonni. Finché, una
notte, Andrea si trova a Vermicino, imbragato, intento a farsi calare nel pozzo
per poter raggiungere Alfredino.
Lo sprofondare nella terra, nella dimensione del sogno
che occupa la seconda parte del romanzo, diventa
discesa concretissima all’interno di sé, delle proprie paure. Bisogna
scendere nel pozzo e guardare Alfredino, quel bambino che tutti credono di
conoscere e nessuno ha mai visto davvero, per fare i conti con la propria
inquietudine. Guardarlo a pezzi, illuminato da una torcia, nella sua fragilità, che è la fragilità di ognuno – e che porta con
sé una dimensione di purezza, di ingenuità stracciata e perduta durante
la cresciuta.
L’esperienza onirica però non si limita a questa presa di
coscienza: si fa anzi presto viaggio
infero, con una guida d’eccezione, Alfredino stesso, che non conosce più il
tempo e si muove in uno spazio
indeterminato, affollato da presenze misteriose, ciascuna con la sua storia
da raccontare ai viaggiatori:
Non saprei dire da quando, da quale punto, cominciare a contare il tempo relativo di questa avventura sotterranea, radicale. Non so se sia subumana o sovrumana, non so se sia sacra o profana, perché non so più dove si trovi adesso il cielo, se sopra la mia testa o sotto i miei piedi. Qui tutto vive di una vita propria, diversa, indicibile. (p. 91)
Andrea si fa portavoce delle domande del lettore, che come lui non
capisce cosa stia succedendo, chi siano gli uomini, le donne e i ragazzini che
si presentano in tutta la propria consistenza materica, già però trapassata in
elemento naturale (così una giovane pianista ha il volto ricoperto di muschio,
dagli adolescenti che giocano al campetto fuoriescono ciuffi di gelsomini, una
coppia di anziani genitori ha nuche di fango e l’entusiasta frate Giulio un
corpo fatto d’aria e di sabbia).
Ianniello conferma in quest’opera, per il resto così dissimile
dalle precedenti (ad esempio La vita
prodigiosa di Isidoro Sifflotin,
recensita qui), il suo gusto per la
parola in una prosa ricca, ariosa,
che unisce alla varietà lessicale la capacità di unire il lirismo alla
puntualità descrittiva. Così il mondo sotterraneo, con la sua stella polare,
Alfecca Meridiana, e la sua lontananza dal tempo degli uomini, riporta pure
continuamente alla vita terrena da cui i personaggi si sono distaccati, o sono
stati strappati dalla morte. Va detto che, nel prevalere della dimensione visionaria del sogno sulla trama,
l’autore gioca un po’ con la fiducia del suo pubblico, che richiama a una
pazienza che potrebbe vacillare nella prolungata mancanza di chiarimenti:
“Alfredino, ma perché mi raccontano questa storia? Perché tutti mi raccontano la loro storia?”“Lo saprai, ma è presto. Bisogna avere pazienza. Se vuoi la parte migliore delle cose, un po’ di pazienza è necessaria. Ma ci sono io qui a tenerti la mano, presto capirai tutto.” (p. 136)
Le anime che Andrea incontra nel suo cammino sono l’elemento più riuscito e
commovente del romanzo. Anime ingenue. Anime pulite, sincere, interrotte. Anime
la cui vita è stata stroncata lasciando qualcosa in sospeso, o semplicemente
che sanno sorridere “allo stesso modo,
come chi ha provato a non fare mai male a nessuno” (p. 151).
Bisogna aspettare due terzi del romanzo, e un brusco passaggio dalla prima alla terza persona,
per ricevere le spiegazioni tanto attese, che gettano una nuova luce sulla
condizione di stasi del mondo ultraterreno, e su Alfredino, laggiù. Non si può però dir niente di questa parte, che
deve essere scoperta dal lettore, assaporata come frutto della sospensione
creata durante il viaggio sotterraneo del protagonista.
Non è affatto una lettura facile, quella del nuovo romanzo di
Ianniello, per la scelta ambiziosa
dell’autore di partire da un evento di cronaca che è stato sentito
profondamente (e che quindi deve essere maneggiato con prudenza) per descrivere
un percorso onirico misterioso e per larga parte indecifrabile.
Emerge forte e chiara dal tessuto rarefatto della trama l’indagine sull’innocenza, la purezza, da
proteggere nel proprio cammino esistenziale, su quel nucleo interiore e irriducibile che ci mantiene fedeli a noi stessi.
Soluzioni semplici però, volutamente, non sono date, e non è detto che al
lettore piaccia quella verità dolorosa, umanissima, con cui si troverà a fare i
conti nella parte conclusiva del romanzo.
Carolina Pernigo