di Andrea Donaera
NN Editore, 2021
pp. 240
€ 17,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
È una
leggerezza, quella evocata dal titolo, che non trova corrispondenza nelle vite
dei personaggi del nuovo romanzo di Andrea Donaera, gravate da angoscia e
dolore, funestate dal lutto o dall’incompiutezza. Le giornate o i pensieri di tutti si articolano infatti intorno a
un letto adagiato in una stanza che odora di vecchio e di polpette fritte, un
letto in cui una ragazza giace in coma
dopo essere stata investita da un pirata della strada non ancora identificato.
Si tratta di Miriam, che ha il nome di una zia morta troppo giovane e che è
cresciuta in mezzo allo sfaldarsi del rapporto tra i suoi; Miriam, bellissima e pura, giovane e arrabbiata,
catalizzatore di ogni male e di ogni bene presenti tra le pagine. In una
notte come un’altra, ha incontrato in un bar un ragazzo dagli occhi buoni e
qualcosa in lei è cambiato, così come è cambiato in lui, una scintilla di
riconoscimento tra anime disperate (“Qualcosa
sta succedendo. Qualcosa di diverso”, p. 175).
Ma poi la notte è passata e i due si ritrovano nel presente
narrativo in cui lei c’è, ma per chi
la guarda da fuori, ad eccezione di Andrea,
è come se non ci fosse più, ridotta a un corpo atono, sprofondata in un
baluginare di luci e ricordi, senziente eppure lontanissima e quasi perduta
nell’incertezza tra tornare o lasciarsi andare.
La trama di Lei che non
tocca mai terra si configura come un assemblarsi progressivo di frammenti:
i dialoghi silenziosi tra Andrea e Miriam, che passano attraverso una sintonia
profonda delle coscienze; le sedute di talking
cure con cui i genitori o l’innamorato si rivolgono alla figlia, i ricordi
sempre più nitidi della ragazza dal limbo di cui è prigioniera… la frammentarietà, attentamente
perseguita, è del resto la cifra costitutiva dell’opera: tutti i comprimari
hanno dei conti irrisolti con il passato, tutti hanno pensieri spezzati e non
ancora ricomposti, perché manca a
ciascuno quell’elemento utile alla decifrazione del quadro generale che
riuscirà ad avere soltanto il lettore, e soltanto alla fine del volume.
Lo stesso protagonista, Andrea, è un personaggio in divenire, disgregato nella sua storia passata, ma
che cerca di ritornare unità. Vorrebbe essere diverso, rompere quel silenzio
che lo attanaglia dentro da troppo tempo; vorrebbe liberarsi dall’ossessione e
offrirsi a Miriam come un puntello, essere lui stesso un motivo perché si
risvegli. Eppure lui sa che è lei la
salvezza e anche se il suo è un amore egoistico, orientato all’autoconservazione,
ci si aggrappa con tutto se stesso, e il
suo tenersi a lei trattiene lei in vita.
È come se sono una specie di cosa a pezzi. Mi guardo allo specchio E sono tutto fatto di robe che mancano, di arti fantasma. Mi guardo allo specchio e c’è questa roba piena di pezzi che mancano: ed è come se non sono io - oppure sono così tanto io che non riesco nemmeno a riconoscermi. […] Per me tu sei quella che può salvarmi. Anche se non è vero, anche se magari sono io, in realtà, a dover salvare te. […] Amare qualcuno come io amo te è una roba violenta: è un accanimento che ti esclude, lo so, è un ossessionarsi basato su niente se non su me stesso. E però mi serve. (p. 131, 132)
Nel nuovo romanzo di Donaera “il Male” e
“amare” si assomigliano troppo, e non solo foneticamente. Andrea è
lacerato, diviso tra due istanze, tra Miriam e papa Nanni, tra la passione e
Dio – e se quando è con la ragazza sembra che i dubbi si dissolvano (“Se esisti tu non c’è bisogno che esiste Dio”,
p. 133), le cose si complicano quando ritorna al santuario, dove il leader
carismatico lo attrae quasi contro la sua volontà, surrogato di una figura
paterna mancante e agognata (“Nanni ormai
è dentro di me, me lo inietto tutti i giorni come un veleno che però mi piace
sentirmi scorrere nei pensieri e nelle idee”, p. 152).
Il santone esorcista è legato da vicino alla famiglia della
ragazza e il romanzo si sviluppa sotto l’ombra inquietante del pozzo nero dei
suoi occhi. Al di là di ogni apparenza, ci si rende conto presto che in questa
vicenda non c’è spazio per il divino,
perché per Dio parlano sempre gli uomini. Papa Nanni è figura oscura che
professa l’amore, ma che non ne distingue i contorni, che lo piega alla propria
ossessione, che intimidisce il prossimo con il fanatismo della sua verità. Deve essere allora Andrea, più
goffo, più ignorante, più insicuro, a fare la
domanda: “Ma l’amore è più forte del
Male, no?” (p. 76). È attraverso l’intero romanzo che Donaera prova a dare
una risposta, ma chi abbia letto Io sono
la bestia (recensito qui) sa che questa non può essere che corrosiva, feroce, inaspettata.
Rispetto al volume precedente viene qui portata ancora oltre la mimesi linguistica, per cui ogni
personaggio ha una propria marcatura stilistica ed espressiva. Ciascuna voce
risuona, stride, strazia. La devozione di un padre, la rabbia cieca e folle di
una madre, la confusione di un’amica perduta e ritrovata, i sussulti emotivi di
Miriam stessa…
Contribuisce all’effetto deflagrante del testo il peso riservato a ogni singola parola,
in un insieme che risulta musicale e duro al tempo stesso, e che fa sentire
vibrante l’amore dell’autore per la poesia – non soltanto nelle continue
citazioni, ma nel risuonare del fraseggio. Grazie a una prosa sempre
imprevedibile, fatta di scarti continui, l’autore riesce a evocare una dimensione
immateriale, che ha il sentore dell’incubo e in cui è facile perdersi. Lei che non tocca mai terra è un romanzo viscerale, che ha a che
vedere nel profondo con Andrea Donaera e la sua scrittura, confermandola come
qualcosa da seguire e attendere.
Carolina
Pernigo
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