Se l'illusione prende la parola: "Dice Angelica", la storia del Furioso narrata da Vittorio Macioce

 


Dice Angelica
di Vittorio Macioce
Salani Editore, agosto 2021

pp. 304
€ 18,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

La morte di Orlando a Roncisvalle sarà l'inizio della sua leggenda. Il soffio disperato nel corno dell'elefante bianco lo renderà eterno. Tutto comincia con una canzone, ma non ha un finale. Non può averlo. È più forte dei giorni e della polvere. (p. 292).

Ha perfettamente ragione Macioce: le vicende di Orlando non possono avere un finale. Come tutte le storie eterne, è fatta per essere raccontata nuovamente, arricchita, reinventata. Del resto, è quello che ha fatto Ariosto, liberando il paladino dalla sua allure di eroe medievale pio e incorruttibile, per renderlo un eroe svagato e irrisolto, le cui peripezie infinite non sono neppure guidate dalla curiositas di Ulisse, ma da una passione amorosa talmente rovinosa che lo porterà alla follia. Ognuno questa storia l'ha narrata a modo suo, in Sicilia è divenuta il canovaccio infinito dell'Opera dei Pupi, Italo Calvino l'ha narrata in maniera così superba che  finiamo per dimenticare dove finisce la poetica di Ariosto e dove comincia quella del castello dei destini incrociati

Eppure, anche nel gioco iperbolico di Calvino noi eravamo gli inseguitori di Angelica, mai eravamo stati dalla parte dell'inseguita. Il titolo del romanzo d'esordio di Vittorio Macioce, invece, ci rivela subito la sua scommessa: Dice Angelica. La principessa del Catai prende la parola:

Di me ti diranno che sono una perdente, una che non sapeva dove  andare e troppo in fretta ha rinunciato ai propri sogni. [...] Eccomi, allora. So che mi cercavi e non mi interessa sapere chi sei. Uno sei tanti presumo. Uno che dice di essere innamorato di me (p. 13).

Angelica sa benissimo di partecipare al gioco delle illusioni, anzi di impersonare l'illusione più grande: l'amore. Sa che nessuno dei paladini che la insegue la conosce o è interessato a conoscerla, segue solo una proiezione di se stesso, un desiderio carnale o romantico, ma comunque illusorio e privo di  verità. Sa bene di essere l'amo che suscita la trama delle storie, l'esca delle parole e di tutto ciò che è destinato a svanire.

Dov'è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov'è il giardino dove ogni amore sfiorisce? Dov'è la terra dove gli sfiniti trovano pace? Parto senza bagagli, nuda, per attirare su di me le storie di chi mi insegue e riannodarle. Io sono la Luna che si tuffa nel nulla, la figlia maledetta della seta che si avvolge e sparisce (p. 14).

Si definisce una ragazza che cercava la strada più breve per raggiungere il centro del mondo, che si è persa in questa ricerca. Si definisce una che manovra gli eroi, non regala nulla, appare cinica e disincantata e questo, insieme a parole quali John Wayne e videogame, presenti nel testo, portano ad una modernizzazione dell'Angelica ariostesca, che si mostra a volte come una ragazza odierna consapevole della propria corporeità e del modo in cui utilizzarla ai propri fini, una che si domanda «se esista un amore senza prigione o un piacere senza sofferenza». E così, se è consapevole che nella narrazione che di lei è stata fatta è "vizio e discordia", dall'altra parte sente l'urgenza di trovare qualcuno che sia diverso dalle maschere che ha davanti. Non vuole essere domata.

È un'Angelica quasi femminista quella che Macioce ci racconta oppure il problema della percezione e della narrazione della donna fatta dagli uomini ha anche risvolti gnoseologici?

Sono passi, traccia, respiro, illusione. Sono vento. Sono l'ossessione da inseguire, un pensiero che batte e ribatte nelle loro teste. Ma davvero la Luna esiste solo se qualcuno la guarda? Forse sì, forse è davvero così. Oppure no. Magari esisto anche se nessuno mi vede (p. 72).

Angelica, la donna, ma in generale ognuno di noi, esiste anche se nessuno lo guarda? Oppure è follia cercare un'essenza e tutto ciò che esiste esiste solo se qualcuno lo guarda, ossia esiste come fenomeno? Ognuno di noi ha bisogno di un "puparo"? 

Vittorio Macioce, da amante e conoscitore del Furioso, sa bene che la bonomia e la fantasia sfrenata dell'Ariosto sanno spalancare abissi di domande insolubili. Lo definisce «un generatore magico di storie» e  queste storie fanno vagare noi lettori come Rabicano, il cavallo di Astolfo, sulla sabbia e sulla neve, senza peso. E in questa perdita d'essenza, in questa mancanza di fissità, resta solo il movimento senza tregua. «Andare, muoversi, spostarsi, senza sapere neppure dove» dice Angelica. La modernità, della storia che qui Macioce torna a raccontare è proprio in questo mondo senza centro, in questi personaggi che partecipano ad una finzione, non credendola neanche più vera. 

Confrontarsi con un classico è sempre un atto di profondo coraggio e qui Macioce lo fa senza presunzione e senza deferenza. Inoltre, qui diventa un doppio confronto anche con una poderosa storia degli effetti che include anche Italo Calvino. Forse Macioce avrebbe potuto scoprire ancora più le carte di questa Angelica, il cui dire in alcuni capitoli si inceppa a causa di una focalizzazione non sempre chiara. Se qualsiasi studente ha imparato al liceo che Ariosto è un maestro impareggiabile dell'entralacement, di certo mettere mani all'intreccio iperbolico architettato da Ludovico è roba da far tremare le vene e i polsi. Il romanzo  a volte sembra oscillare tra una divulgazione dell'Orlando Furioso - e già questa sarebbe comunque un'opera più che meritoria - e una rivisitazione che problematizza le cifre filosofiche del poema ariostesco. Forse scegliere meno fili di questo intreccio, lasciandone altri nel poema originario, avrebbe dato più incisività. Tuttavia, Vittorio Macioce conserva la cosa più importante dell'Orlando Furioso: la magica credenza nella finzione, nella necessità di "vivere per raccontarla" (per usare la frase di un altro mago incantatore, Garcìa Marquez). 

«I fatti sono nemici della verità» conclude. Scoprendo dentro sé e dentro noi qualcosa di Astolfo.

Deborah Donato